martedì 31 gennaio 2012

quaranta miliardi di euro l'anno per venti anni!

L'Italia dovrà spogliarsi di tutto a cominciare della sua sovranità che ha già per buona parte perduto per restare nella UE. Dovrà ridurre il suo debito pagando 40 miliardi di euro l'anno per venti anni.Per potere pagare questa cifra enorme dovrà accentuare il suo potere fiscale sui cittadini. Il governo controllerà tutte le nostre entrate e di esproprierà di una parte dei beni che abbiamo acquis...ito negli anni della "normalità." Vivremo in stato di dittatura fiscale che diventerà asfissiante. Insomma nell'anno di grazia 2011 e nel 150 della sua nascita l'Italia ha cessato di esistere come nazione. Siamo commissariati da Monti. Il Parlamento e la Costituzione sono diventati orpelli inutili. Dovrà anche svendere il suo patrimonio immobiliare e forse cedere anche parte del suo immenso patrimonio artistico. Il tutto per restare in una Unione Europea ed in una eurozona senza alcuna garanzia e certezza di futuro. Forse è meglio cominciare a prepararci una via di uscita. Fuori dalla UE e fuori dall'Euro.Dovrà anche svendere il suo patrimonio immobiliare e forse cedere anche parte del suo immenso patrimonio artistico. Il tutto per restare in una Unione Europea ed in una eurozona senza alcuna garanzia e certezza di futuro. Forse è meglio cominciare a prepararci una via di uscita. Fuori dalla UE e fuori dall'Euro.

Carlo Marx e la sartina Marianne

Nella svariata folla di lavoratori d’ogni professione, di ogni età e di ogni sesso che si serrano a noi dinanzi più numerosi delle anime dei morti negli inferni dinanzi ad Ulisse, e sui quali, senza aprire il libro turchino che portano sotto il braccio, riconoscesi a prima vista l’impronta dell’eccessivo lavoro, segnamo ancora a volo due figure, il di cui evidente contrasto vale a provare come di fronte al capitale tutti gli uomini sieno uguali — una sartina ed un fabbro.

Nelle ultime settimane del giugno 1863, tutti i giornali di Londra pubblicavano un articolo con questo titolo a sensazione: Death froni mple overwork (morte per semplice eccesso di lavoro). Trattavasi della morte della sartina Marianna Walkley, di 20 anni, impiegata in noto laboratorio condotto da una signora che porta il dolce nome

Elisa, provveditrice della Corte. Era la vecchia storia tante volte

raccontata (2). i ben vero che le giovani operaie non lavoravano in Libro I — Procedimento della produzione capitalistica

media che 16 ore e 1/2 al giorno, e durante la stagione solo trenta ore (li seguito senza riposo; vero eziandio che, per ravvivare le loro forze di lavoro quando stavano per venir meno, si dava loro qualche bicchiere di Sherry, di Porto o di caffè. Ora si era in piena stagione. Trattavasi di fare in un batter d’occhio delle vesti per alcune nobili signore che dovevano andare al ballo della principessa di Galles, da poco arrivata dall’estero. i\iarianna Walkley aveva lavorato 26 ore e senza interruzione con altre sessanta ragazze. Bisogna aggiungere che queste ragazze erano poste 30 in una stanza che conteneva appena un terzo della massa d’aria necessaria, e che alla notte dormivano due a due in una casupola in cui le camere da letto erano fatte con vari tramezzi di legno (1). Ed era quello uno dei migliori laboratori di mode. Mariauna Walkiey cadde ammalata il venerdì e morì la domenica senza avere, con gran sorpresa della signora Elisa, dato l’ultimo punto d’ago al suo lavoro. 11 medico chiamato troppo tardi al suo letto di morte, il signor Keys, dichiarò chìaramente innanzi al « Coroner’s 1ury » che: Marianna Walkley era morta in seguito alle molte ore di lavoro in un laboratorio troppo pieno, ed in una camera da letto troppo piccola e senza ventilazione. Il « C’oroner’s Iury », per dare al medico una lezione sugli usi del inondo, dichiarò invece che: la defunta era morta di apoplessia, ma che v’era ragione di credere che la sua morte fosse stata accelerata da un eccesso di lavoro in un laboratorio troppo pieno, ecc. « I nostri schiavi bianchi, scrisse il Morning Star, l’organo dei liberoscambisti Cobden e Bright, i nostri schiavi bianchi sono le vittime del lavoro che li conduce alla tomba; essi vengono meno e muoiono senza tamburo né tromba”

Carlo Marx
(Il capitale, libro I)

lunedì 30 gennaio 2012

il precariato ideologico

Il precariato ideologico

Il precariato non nasce dalla crisi o da difficoltà obiettive delle aziende. E' una scelta politica bipartisan dei partiti che sono in Parlamento che serve a riallontanare quanti si stavano unificando nel ceto medio verso i bordi marginali della società. Fa parte di un piano studiato a Bilderberg per distruggere il ceto medio e ricacciare indietro l'ascensore con i nuovi arrivati. Infatti non esiste posto di lavoro precario tranne quello stagionale o eccezionale. E' il lavoratore precario chiamato ad occupare un posto di lavoro stabile che non gli viene assegnato per una discriminazione politico-sociale che discende dall'ideologia classista. Le classi dominanti si erano spaventate del 68, della sua spinta egalitaristica e della propulsione verso l'alto che aveva impresso ai ceti operai che avevano conquistato la possibilità di comprarsi una casetta, avere l'automobile, mandare i figli a scuola, farli laureare. Prima del 68 nelle fabbriche la mensa operaia era divisa da quella degli impiegati e si avevano due distinti contratti di lavoro. Il 68 è stato un grande fatto di civiltà! Il precariato viene organizzato scientificamente dalla legge Biagi che non sarà mai seriamente intaccata in questo ciclo della politica perchè fa comodo ai partiti alle istituzioni alle cooperative ai sindacati che tengono al guinzaglio centinaia di migliaia di dipendenti ad una media inferiore ai 700 euro mensili e senza diritti. Il contratto unico triennale che si accingono a varare (ma non per sostituire tutte le tipologie degli atipici) è una truffa, un grimaldello per espugnare l'art.18 già preannunziato dal ddl dei senatori del PD.
Se ci fosse una volontà politica positiva nello Stato si potrebbe stabilire che i contributi di legge vengono erogati soltanto a coloro che rispettano il contratto di lavoro e non hanno precari. Le redazioni dei giornali sono popolate da tanti giornalisti pagati a pezzo, a giornata, a servizio per pochi spiccioli. Se non avessero papà e mamma che li finanziano morirebbero di fame e di stenti. Se un giornale riceve una parte dei 150 milioni che lo Stato graziosamente elargisce dovrebbe garantire il rispetto del contratto dei suoi giornalisti. Per tutti. Non lo fa e questo succede perchè anche i deputati ed i senatori tengono a stecchetto i loro "portaborse" con compensi di fame e la speranza sempre più evanescente per tanti di sistemarli se sapranno servirli per bene.
Bisognere estendere a tutto il lavoro la copertura dell'art.18 e limitare il precariato soltanto ai lavori stagionali o occasionali. Ma il vento che soffia va da un'altra parte e vorrebbe precarizzare tutto il lavoro. Questo non per superare la crisi ma per strumentalizzarla soltanto per i ceti abbienti escludendo venti milioni di italiani e le loro famiglie. Se passa l'abolizione dell'art.18 l'Italia degraderà e sarà un paese di infelici e di ansiosi imbottiti di pillole tranquillanti per potere reggere lo stress della provvisorietà e l'assenza di futuro.
Pietro Ancona
già membro del CNEL

Il precariato ideologicoil precariato ideologico

Il precariato ideologico

Il precariato non nasce dalla crisi o da difficoltà obiettive delle aziende. E' una scelta politica bipartisan dei partiti che sono in Parlamento che serve a riallontanare quanti si stavano unificando nel ceto medio verso i bordi marginali della società. Fa parte di un piano studiato a Bilderberg per distruggere il ceto medio e ricacciare indietro l'ascensore con i nuovi arrivati. Infatti non esiste posto di lavoro precario tranne quello stagionale o eccezionale. E' il lavoratore precario chiamato ad occupare un posto di lavoro stabile che non gli viene assegnato per una discriminazione politico-sociale che discende dall'ideologia classista. Le classi dominanti si erano spaventate del 68, della sua spinta egalitaristica e della propulsione verso l'alto che aveva impresso ai ceti operai che avevano conquistato la possibilità di comprarsi una casetta, avere l'automobile, mandare i figli a scuola, farli laureare. Prima del 68 nelle fabbriche la mensa operaia era divisa da quella degli impiegati e si avevano due distinti contratti di lavoro. Il 68 è stato un grande fatto di civiltà! Il precariato viene organizzato scientificamente dalla legge Biagi che non sarà mai seriamente intaccata in questo ciclo della politica perchè fa comodo ai partiti alle istituzioni alle cooperative ai sindacati che tengono al guinzaglio centinaia di migliaia di dipendenti ad una media inferiore ai 700 euro mensili e senza diritti. Il contratto unico triennale che si accingono a varare (ma non per sostituire tutte le tipologie degli atipici) è una truffa, un grimaldello per espugnare l'art.18 già preannunziato dal ddl dei senatori del PD.
Se ci fosse una volontà politica positiva nello Stato si potrebbe stabilire che i contributi di legge vengono erogati soltanto a coloro che rispettano il contratto di lavoro e non hanno precari. Le redazioni dei giornali sono popolate da tanti giornalisti pagati a pezzo, a giornata, a servizio per pochi spiccioli. Se non avessero papà e mamma che li finanziano morirebbero di fame e di stenti. Se un giornale riceve una parte dei 150 milioni che lo Stato graziosamente elargisce dovrebbe garantire il rispetto del contratto dei suoi giornalisti. Per tutti. Non lo fa e questo succede perchè anche i deputati ed i senatori tengono a stecchetto i loro "portaborse" con compensi di fame e la speranza sempre più evanescente per tanti di sistemarli se sapranno servirli per bene.
Bisognere estendere a tutto il lavoro la copertura dell'art.18 e limitare il precariato soltanto ai lavori stagionali o occasionali. Ma il vento che soffia va da un'altra parte e vorrebbe precarizzare tutto il lavoro. Questo non per superare la crisi ma per strumentalizzarla soltanto per i ceti abbienti escludendo venti milioni di italiani e le loro famiglie. Se passa l'abolizione dell'art.18 l'Italia degraderà e sarà un paese di infelici e di ansiosi imbottiti di pillole tranquillanti per potere reggere lo stress della provvisorietà e l'assenza di futuro.
Pietro Ancona
già membro del CNEL

Marx sui bambini

Carlo Marx non studiava l'economia soltanto dal punto di vista teorico ma aveva una conoscenza sterminata delle condizioni della classe operaia e conosceva il funzionamento della industria. Il libro primo del Capitale è pieno di indagini sulle varie categorie di lavoratori e su come vivevano. E' stupefacente la vastità e la profondità della sua conoscenza. Si può scrivere una storia anche antropologica dei lavoratori inglesi o tedeschi basata sui suoi scritti.
Ecco che cosa scriveva in una pagina del Capo X dedicata alla giornata di lavoro sempre del libro primo:
"Fin qui noi abbiamo studiato l'eccesso di lavoro solo laddove le mostruose angherie del capitale, superate appena dalle atrocità degli spagnoli contro i Pellirosse delle Americhe, hanno condotto le leggi a porvi dei limiti. Diano ora un'cchiata a qualcuno dei rami della industria in cui oggi, o almeno ancora ieri,nulla limitava questo sfruttamento della forza di lavoro.
" Il signor Broughton, magistrato di contea, dic hiarava quale presidente di un meeting, che ebbe luogo nel palazzo comunale di Nottingham il 14 gennaio 1860, che nella parte della popolazione occupata nella fabbricazione dei merletti regnano una miseria e delle privazioni incognite al resto del mondo civile.... Verso le 2,3 o 4 del mattino bam bini dai 9 ai 1o anni vengono strappati dai loro sudici letti e costretti a lavorare per la sola sussistenza fino alle 10 alle 11 o alle 12 della sera. La magrezza li riduce allo stato di scheletri, il loro sviluppo intristisce, i lineamenti del viso ed il loro essere intero si irrigidisce in un torpore tale che, il solo suo aspetto
eccita un fremito.......Noi non siamo punto sorpresi che il signor Mallet ed altri fabbricanti siansi presentati per protestare contro ogni qualsiasi discussione.... Il sistema, quale lo ha descritto il rev.mons.Montagu Valpu è un sistema di schiavitù senza limiti, schiavitù sotto tutti i punti di vita, sociale, fisico, morale ed intellettuale che devesi pensare in una città che organizza un meeting per domandare se il tempo di lavoro quotidiano per gli adulti sia ridotto a 18 ore!....Noi declamiamo contro i piantatori della Virginia o della Carolina. Il loro mercato di schiavi negri dei colpi di frusta, il loro traffico di carne umana siano essi dunque più orribili di questa lenta immolazione di uomini, che avviene solo allo scopo di fabbricare dei veli e dei colletti di camicia per il profitto dei capitalisti?"
(dal Capitale)

domenica 29 gennaio 2012

all'indomani dei forconi

All'indomani dei Forconi

E' molto triste la Sicilia all'indomani del movimento dei forconi o come altro si voglia chiamare. Tutto sta tornando alla "normalità" ed è una normalità nella quale ognuno di noi è tornato a vivere la sua vita di tutti i giorni, ha risolto i problemi di approvigionamento di carburante o di generi alimentari, ha continuato ad andare a lavorare mentre il Presidente del Consiglio che ha intrattenuto Lombardo in una discussione della quale sappiamo molto poco è tornato a parlare di flessibilità in uscita che nell'ultimo grido della dottrina liberista sempre in corso di aggiornamento semantico si chiama: mobilità nel tempo. Vuol dire che non si deve sostare a lungo nello stesso posto di lavoro forse perchè ci si arrugginisce o forse perchè bisogna cederlo a qualcuno disposto ad accettare condizioni più convenienti per l'azienda.
Continua la campagna di mascariamento dei Forconi attraverso i quali si individuano le centinaia di migliaia di persone che in tutta la Sicilia hanno urlato per giorni la loro disperazione. Molti di loro vengono chiamati con disprezzo "padroncini"e si aspettano ansiosamente notizie di arresti che possano essere la prova del sillogismo enunziato da gad Lerner che nulla in Sicilia sfugge alla infiltrazione della mafia, che tutto è mafia. Le mense della caritas si affollano di nuovi conviviali di giovani coppie o di pensionati che non riescono a sopravvivere da soli. Grande parte del tessuto sociale regge per il ruolo della famiglia nella quali i nonni o i genitori integrano o costituiscono il reddito spesso miserrimo dei loro figli ad opera della terribile svalutazione del valore del lavoro. Oggi lavorare non ha alcun valore dal momento che la legge Biagi ha schiavizzato le persone privandole dei loro diritti. Nei posti di lavoro si respira terrore. La società è diventata terribilmente ansiosa. Cadendo l'art.18 che la signora Borsellino non considerà un tabù come grande parte del PD nei posti di lavoro il terrore si taglierà con il coltello ed i datori di lavoro potranno esercitare il loro ruolo di padroni fino in fondo come è sempre stato nella storia dell'Italia ad eccezione del trentennio 1960-1990.
I partiti in Sicilia non mostrano di avere qualcosa di dire alla gente che ha lottato con i Forconi. Si occupano delle "primarie" del PD. I baroni dell'Assemblea regionale Siciliana votano documenti in cui sostengono all'unanimità o quasi il governo Lombardo fac simile del documento unitario del Parlamento Nazionale per Monti. E' come se la politica fosse morta senza esserlo. Continua a vivere ed a consumare risorse immense per le sue cortigianerie anche se comincia a boccheggiare per mancanza di risorse e per i troppi debiti. Per evitare di entrare nel merito e di aiutare in qualche modo i contadini ed i pescatori e gli artigiani che stanno fallendo e sono inseguiti dai pignoramenti della Serit e dalle rate scadute dei lor mezzi i politici, aiutati da compiacenti pennivendoli di regime, stanno montando il caso del mafioso arrestato, un tale di Marsala che viene additato come "leader" dei Forconi. Non è vero che è leader dei Forconi come è stato chiarito. Ma come musicava Rossini la calunnia è un venticello che una volta levatosi vive di vita propria e può diventare una tempesta!
Ci vorrebbero due interventi immediati ed organici: una drastica riduzione del prezzo dei carburanti e l'aumento dei prezzi di vendita dei prodotti agricoli alla produzione. Ma questo non sarà fatto e la crisi siciliana sarà rappresentata da miliardi di limoni, arance, mandarini che restano appese all'albero o che sono già una lettiera putrescente a terra.
A Torino i NoTAV sono terroristi, a palermo i Forconi sono mafiosi. E' una vecchia tecnica del potere per sfuggire alle sue responsabilità e criminalizzare il dissenso.
Pietro Ancona
già segretario della CGIL siciliana

art.41 bis e lombrosismo

E' scandalosa e da condannare non soltanto la condizione materiale delle carceri e dei carcerati italiani che non è solo problema di sopraaffollamento da vagone nazista delle celle ma anche di abbassamento della qualità della reclusione a cominciare dal cibo e dai servizi ma sopratutto di mancato rinnovamento delle normative di oggi che consentono la persistenza di elementi di crudeltà medioevole e di totale disprezzo dei carcerati- Mi riferisco alla necessità di abolire l'art.41bis e tutte le normative che consentano l'afflizione di peggioramenti delle pene. Bisognerebbe anche abolire le colonie penali o case di pena dove vengono avviati i detenuti dopo avere scontato la pena. Abolire i manicomi criminali. Abolire la definizione di "delinquente per tendenza" di derivazione lombrosiana che consente la carcerazione per quattro anni di persone che non hanno commesso nessun reato o hanno già scontato il reato.
Ma l'ideologia liberista al potere impedire le necessarie riforme materiali e giuridiche che rendono iniqua la legislazione penale italiana e l'esecuzione delle pene. Non si spenderà un soldo per le carceri a menochè qualcuno non ci guadagnerà sopra e ne farà business.Non saranno abrogate le leggi che affollano le carceri perchè corrispondenti alla profonda vocazione razzista del liberismo.Non si farà niente per depenalizzare i reati di consumo di droga. In carcere si continuerà a morire e vi marciranno ancora i detenuti in attesa di giudizio. La politica securitaria che impregna tutti i partiti presenti in Parlamento non consentirà nessuna apertura e fin da adesso possiamo prepararci a registrare nel corso del 2012 da sessanta ad ottanta suicidi come nella media degli ultimi dieci anni.
Pietro Ancona

sabato 28 gennaio 2012

anticipare la manifestazione fiom dell'11 febbraio Proclamare lo sciopero generale !

Anticipare la manifestazkione fiom dell'11 febbraio. Chiedere lo sciopero generale!

I torvi sussiegosi ed arroganti "professori" del governo tecnofascista tornano alla carica sullo art.18 e si sono inventati una nuova dottrina che prevede l'abolizione del posto fisso. Nessuno a quanto pare potrà più occupare lo stesso posto di lavoro per tutta la sua vita lavorativa. Immagino che gli operai della Fiat che da trenta anni stanno in fabbrica o gli insegnanti in cattedra dovranno cedere il loro lavoro e cercarsi altrove il pane quotidiano. La Fornero dice: non al legame tra posto fisso e lavoratore. Vogliono la totale mercificazione del lavoratore e la perdita totale di tutti i suoi diritti a cominciare da quello che non può essere licenziato senza un giusto motivo. Monetizzeranno il licenziamento con una manciata di spiccioli. Insomma vogliono portarsi a casa la madre di tutte le riforme: l'abolizione dell'art.18. Credo che lo sciopero educato non sarà sufficiente a fermare questa gente molto più determinata ad ottenere un risultato dei sindacati che sembrano intimiditi. Lo sciopero della Fiom per il 13 febbraio è troppo lontano! Forse arriverà DOPO la trattativa che più che altro è una sorta di comunicazione del Governo ai sindacati con poca o nessuna negoziazione . Bisogna proclamare uno sciopero generale!!
Quando si saranno portato a casa l'art.18 attaccheranno il diritto di sciopero e privatizzeranno l'INPS e l'INAIL. Queste sono le tappe della "reconquista "capitalistica della Italia.
Pietro Ancona
http://www.repubblica.it/politica/2012/01/28/news/monti_sul_mercato_del_lavoro_negoziato_in_salita_ma_sono_fiducioso-28917653/

venerdì 27 gennaio 2012

mascariamento e morte della politica

Mascariamento e morte della politica

Mascariare in lingua siciliana non vuol dire soltanto tingere o imbrattare. Significa qualcosa di più: dipingere una maschera a proprio piacere su colui o coloro che si vogliono diffamare. Il movimento dei Forconi sta subendo grandinate di attacchi specialmente da coloro che sono interessati all'immobilità e si sentono disturbati da un movimento che ha sconvolto la Sicilia , ha contagiato subito l'Italia ed è tornato a divampare in Sardegna. Il primo attacco lo ha subito dal Presidente della Sicindustria un personaggio con ambizioni politiche noto per avere proposto la cancellazione degli imprenditori mafiosi dalla Confindustria il quale ha subito dipinto i Forconi come infiltrati della mafia. Oggi è stato fatta una operazione di polizia tra Sicilia e Campania nella quale ci sono sei arresti per un racket monopolistico dei tir e degli autocarri. E' stata fatta trapelare la notizia che uno degli arrestati potrebbe essere stato visto da i manifestanti del movimento dei forconi. Ammesso che la notizia venga confermata non si è scoperto nulla di sensazionale.Non si può escludere che uno o più camionisti siano mafiosi o che lo siano stati ma non si può mascariare tutti gli autotrasportatori di mafia per questo. Posso escludere che qualcuno degli operai della Fiat di Termini Imeresi ora licenziati a suo tempo sia stato assunto per raccomandazione di un capo cosca delle Madonie? La Regione Siciliana ha diecine di migliaia di dipendenti. Quanti tra di loro sono mafiosi o sono stati raccomandati dalla mafia? Debbo condannarli tutti? La tesi del movimento infiltrato dalla mafia è speciosa ed ipocrita perchè in effetti il vero messaggio c he si vorrebbe comunicare è un altro: il movimento dei forconi è manovrato dalla mafia, è esso stesso mafia. Questo è uno dei refrain degli opinionisti della stampa italiana di centro-destra e di centro sinistra allarmati dalla furia del movimento e dalla sua capacità di paralizzare la Sicilia.
Altro mascariamento è quello di coloro che parlano delle cinque giornate della Sicilia come
di una manifestazione di ribellismo qualcosa che ha a che fare con i bassifondi della storia con le esplosioni di rabbia o di violenza che di tanto in tanto esplodono ma che non incidono nelle linee fondamentali della storia. Insomma una sorta di attitudine a rifiutare e contestare le necessità o le scelte imposte dalle autorità.
Si cerca ancora di mascariare sostenendo che il movimento dei forconi sia una specie di Vandea, un fenomeno di ribellione sociale e regressivo. Ma Monti e Lombardo non sono Robespierre o Marat i loro governi non sono la Rivoluzione Francese. Monti è il tecnofascismo sociale in doppio petto che parla fluentemente l'inglese e che, per conto delle tecnocrazia euroatlantica si è dato il compito di pauperizzare il ceto medio e la classe operaia e cancellare il welfare. Lo Stato deve restare soltanto come struttura di difesa degli interessi nazionali ed internazionali delle classi dominanti. Lombardo è il capo di una grande cortigianeria parassitaria che ha avuto da spolpare la regione e sarà tenuto politicamente in vita fino a quando servirà come ammortizzare e deviatore delle pulsioni sociali di cambiamento. Ma i nuovi liberisti lo considerano un ferro vecchio allo stesso modo di come considerano un ferro vecchio, un inutile orpello, il Parlamento. In effetti dal governo Berlusconi al governo Monti è come se fosse trascorso un ventennio e non solo un paio di mesi e come se tutte le riforme istituzionali che Berlusconi si proponeva di fare fossero già state fatte e si trovano oramai alle spalle del governo Monti.
Un Parlamento che vota una mozione comune di sostegno al governo Monti è come se avesse firmato la sua capitolazione, la sua resa incondizionata. Oramai non può più tornare indietro e nell'anno di vita che resta a questa legislatura in Italia cambierà tutto. Possiamo considerare la fase della democrazia del nostro Paese conclusa. Dopo Monti ci sarà quello che vorranno i poteri euroatlantici. Forse lo stesso Monti o forse un altro come Passera ma con la politica l'Italia ha chiuso. Sarà soltanto amministrata.
Le letture malevoli che la politica ha dato della vicenda siciliana o di quella dei pastori sardi sono la prova della impotenza del centro-sinistra e del centro-destra ad assumere una iniziativa che non sia quella di fare solo da cassa di risonanza al governo dei professori. Quando Rita Borsellino attacca l'art.18 e dic e che Monti è un "male necessario". Quando l'unico politico siciliano che dice qualcosa sui Forconi è Miccichè ma soltanto per dargli connotazioni conformi al suo "partito del Sud" (che vota Monti) significa che tutta la politica si è ritirata. La cosa della quale si occupa è la sciarra tra i caporioni del centro-sinistra per la sindacatura di Palermo. Una cosa che pare interessi soltanto gli addetti ai lavori.
Ma la mancata risposta ai problemi sollevati dal movimento dei forconi potrà aprire una frattura indescrivibile e dagli esiti imprevidibili. La gente dice: siamo oltre la crisi, siamo alla fame! Il vuoto che la politica ha fatto attorno ai movimenti in Sicilia ed in Sardegna è destinato ad essere riempito da gruppi dirigenti che saranno espressi dagli stessi forconi o dai pastori. E speriamo che siano in grado di gestire con forza ma anche con saggezza quello che li aspetta.
Pietro Ancona

giovedì 26 gennaio 2012

Forconi e Ponte sullo Stretto

Forconi e Ponte sullo Stretto

Il movimento dei Forconi si è dichiarato insoddisfatto dell'esito dell'incontro Lombardo -Monti i quali , peraltro, prendono per il culo la Sicilia quando rilanciano il Ponte sullo Stretto che, dicono, non è mai stato definanziato!
Mariano Ferro ha dichiarato c he adotteranno modalità di lotta che non recheranno danno all'economia siciliana. Encomiabile proposito se il governo fosse fatto di persone responsabili disponibile a fare quanto può per lo stato quasi fallimentare di un milione di agricoltori siciliani più i pescatori gli artigiani e tutto il resto. Ebbene l'unico linguaggio che questo governo capisce è quello più estremo. Gli scioperi educati non gli fanno neppure il solletico. Vedi come fanno marcire le vicende dell'Isola dei Cassi Integrati o degli Stiliti dei treni notturni aboliti dal signor Moretti per favorire Montezemolo e le ferrovie per ricconi.Intanto gli Oligarchi dell'ARS scimmiottando il Parlamento Nazionale hanno votato una mozione bipartisan di appoggio a Lombardo .
I forconi sono soli. Se sbaglieranno o si confonderano o non porteranno niente a casa nessuno può onestamente rimproverarli. La politica guarda da un'altra parte mentre la Sicilia sprofonda nella disperazione.

la crescita non è necessaria

La "crescita" non è necessaria
Respingiamo gli obiettivi di "crescita"che il governo Monti vuole imporre attraverso una redistribuzione delle risorse a vantaggio delle banche e delle imprese e delle rendite. Non è necessario "crescere" in un mondo in cui esiste un fortissimo squilibrio a danno di tante aree emarginate o sfruttate ed in cui alcuni Paesi hanno intrapreso una coraggiosa battaglia per la loro emancipazione, per fare stare meglio i loro popoli e si stanno sviluppando : Brasile, India, Cina, Venezuela, argentina,....
L'Italia e l'Europa non hanno bisogno di crescere ma di usare diversamente le loro risorse, ripartirle in modo equo, fermare la crescente diseguaglianza sociale, usare meglio e parsimoniosamente i beni naturali della terra. Deve cessare l'ossessione del PIL e la guerra finanziaria , aborrire l'idea stessa della competitività, stabilire rapporti di import-esport basati sui bisogni generali e con obiettivi davvero liberali verso i paesi più poveri.
Al posto della crescita una diversa organizzazione economica ed un piano di riallocazione delle risorse dal capitale e dalla rendita al lavoro di almeno il cinque per cento l'anno. Migliorare i consumi collettivi, aumentare i salari subito di almeno il venti per cento, abolire tutti i contratti atipici , dismettere tutte le privatizzazioni che creano sanguisughe sui beni e sui consumi pubblici (vedi autostrade e treni), ripristinare la scala mobile. Realizzare un programma di investimenti pubblici basati su piccoli progetti di manutenzione e miglioramento del territorio, rinnovo del patrimonio immobiliare scolastico ed ospedaliero etcc. Investire sulla cultura e non asservirla alle imprese!
L'Italia può anche decrescere del 2 per cento o stagnare come è successo al Giappone per almeno un decennio ma può farsi un equilibrio economico e sociale interno che le consenta di stare serenamente al mondo senza l'angoscia dei listini di borsa e del saliscendi dello spread. Potremmo decidere di non negoziare i nostri titoli di Stato e di emetterli con un tasso fisso e fare una politica di progressivo sganciamento dal finanziamento dello Stato attraverso il mercato finanziario. Obiettivi non di crescita del PIL ma di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle popolazioni oggi sull'orlo della rivolta sociale per la crescente pauperizzazione dei ceti medi produttivi ed il degrado del ruolo dello Stato. Dare un lavoro a tutti costa molto meno che avere il nove per cento dei disoccupati. Si può dare lavoro a tutti remunerato con il Salario Minimo Garantito spostando risorse dai privilegi delle caste politiche regionali a vantaggio di cantieri di lavoro aperti fino all'assorbimento di tutta la disoccupazione locale.
Pietro Ancona

chi sono i forconi?

?









sono i Forconi?
Ho visto le riprese televisive dei telegiornali siciliani delle manifestazioni dei cosidetti"forconi" che il Presidente della Confindustria ha tacciato di infiltrazioni mafiose e che anche diversi soloni della cultura una volta era di sinistra hanno definito "jacquerie" prendendone le distanze e condannando. In generale sono persone anche di una certa età, lavoratori sui cinquanta anni segnati dalla fatica del lavoro manuale, contadini, pescatori, artigiani autotrasportatori. Tra di loro pochi lavoratori giovani perchè da anni si è bloccato l'afflusso di nuove forze specialmente nelle campagne. C'erano tanti, tantissimi studenti che vedono degradare di giorno in giorno il tenore di vita delle famiglie in cui vivono e che stentano a mantenerli. Coloro i quali hanno criminalizzato il movimento si dovrebbero vergognare! Le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei produttori che hanno emesso scomuniche ed hanno parlato di mafia o di violenza hanno mostrato tutta la distanza che li separa dalla realtà siciliana e l'isolamento morale in cui sono stati gettati da decenni di consociativismo con la Regione ed ora di sostegno subalterno del governo Monti.
Ieri il movimento ha prodotto i primi frutti. E' stata annunziato il ripristino del treno Palermo-Milano che era stato soppresso dalle ferrovie privatizzate da Moretti spezzando l'Italia in due ed isolando il Sud; i pedaggi autostradali che fanno arricchire la famiglia Benetton sono stati mitigati agli autotrasportatori per circa 200 milioni di euro ma i soldi vengono prelevati ad altri utenti della autostrada! Una cosa sconcertante! Ma è mia impressione che questo governo non sia in grado, non abbia la cultura per affrontare le questioni strutturali e profonde che hanno generato il movimento. Un movimento che non sparirà perchè la rovina incombe su diecine di migliaia di aziende agricole e sull'artigianato. .
Proprio oggi scatta l'addizionale delle aliquote regionali e si subisce la prepotenza mafiosa della loro retroattività di un anno, una cosa del tutto anticostituzionale ma dalla quale non potremo difenderci perchè il prelievo sarà fatto sugli stipendi e sulle pensioni. I soldi di queste addizionali andranno a foraggiare regioni che mantengono inutili e costosissime burocrazie ed una oligarchia politica di viziati "deputati" che hanno il trattamento di senatori. La regione siciliana costa miliardi di euro e non sappiamo a quanto ammontano i suoi debiti. Serve soltanto a mantenere se stessa. Questo destava scandalo ma veniva sopportato in tempi di relativa "normalità" economica e sociale. Ora non è più tollerato!
Pietro Ancona

mercoledì 25 gennaio 2012

Comunismo e Rivoluzione Francese

la rivoluzione francese privò i lavoratori del diritto di associarsi in sindacato e negò loro il diritto di voto. La Costituzione del 1791 distinse i cittadini in attivi e passivi. I cittadini passivi erano i meno abbienti. Non c'è rapporto di discendenza del comunismo dalla rivoluzione francese che fu fatta in grandissima parte dal popolo ma dalla quale trasse vantaggio soltanto la borghesia che usò il suo potere contro la classe operaia. I valori di libertà del comunismo sono universali e di gran lunga più significativi per l'umanità dal "libertè, fraternitè ed egalitè " riservati solo ad una parte della società come la democrazia ateniese era riservata soltanto ai cittadini benestanti proprietari di schiavi.Visualizza altro

lettera a Romano sui Forconi e sul futuro incerto della Sicilia

Caro Professore Romano,

il movimento siciliano dei forconi non si può liquidare sostenendo con leggerezza che è infiltrato dalla mafia magari perchè come ha detto l'infelice Gad Lerner a l'Infedele "non c'è movimento in Sicilia che non sia infiltrato dalla mafia". La mafia non ha il potere di raccogliere nelle piazze della Sicilia diecine di migliaia di studenti, di pescatori, di agricoltori, di autotrasportatori. In ogni caso, la mafia agisce in silenzio dentro il Potere e non si mostra, come ha denunziato il Presidente della Sicindustria ai posti di blocco. I suoi interessi coincidono con la persistenza della crisi economica che investe la Sicilia oggi. Oltre cinquantam ila aziende agricole sono fallite e magari trovano acquirenti tra i mafiosi. La mafia non ha interesse ad appoggiare la lotta degli agricoltori perchè se questi falliscono essa ingrassa acquisendo le loro aziende o prestando denaro ad usura.
Le ragioni del movimento dei forconi scaturiscono dalla lunga crisi dei prezzi dei prodotti agricoli. Ripeto: se un contadino vuole pagarsi una tazzina di caffè al bar deve vendere almeno 10 chili del meraviglioso grano duro che produce e venti chili di arance o mandarini o un quarto di litro del favoloso scintillante olio siciliano. La lotta scaturisce anche dal rincaro del prezzo dei carburanti diventato insostenibile.
Professore Romano, lei nota come i sindacati ed i partiti siano assenti. Sono assenti perchè sono diventati ideologicamente liberisti e sostengono il governo Monti a Roma e Lombardo in Sicilia. Sindacati e partiti hanno vissuto di consociativismo con gli oligarchi del potere. Mi riferisco anche alle associazioni degli agricoltori che da trenta anni vivono dell'assistenzialismo della comunità europea e della regione siciliana non rendendosi conto che questa politica è diventata controproducente ed inerte. Queste associazione hanno firmato un documento contro il movimento dei forconi!
Oggi a Palermo contadini pescatori e studenti gridavano: lotteremo fino alla morte! Mai fino ad oggi un tale grido era echeggiato nelle piazze siciliane. Temo una disgrazia perchè questo governo e questi partiti non hanno l'intelligenza di capire quello che sta succedendo.
Pietro Ancona
http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_25/romano-illegalita-intollerabile_221ac324-471b-11e1-8fa7-b2a5b83c8dfe.shtml

martedì 24 gennaio 2012

nel giorno della Memoria

Ha scritto una volta Sergio Romano storico politico diplomatico di alto rango che la memoria non è un bene per i popoli. Spesso è un male perchè conserva il ricordo del male che si è subito e difficilmente è consapevole di quello che si è fatto. Io non condivido del tutto questa affermazione anche se penso che non sia del tutto priva di ragioni. Penso che la memoria non debba essere faziosa e debb...a conservare il ricordo anche del male che si è fatto. Penso ai martiri dei campi di concentramento italiani in Italia in Jugoslavia ed in Africa, penso ai comunisti ed antifascisti tedeschi trucidati da Hitler nei primissimi anni del suo potere, penso agli ebrei, ai rom, agli omosessuali, agli eroici soldati italiani che rifiutarono la repubblica di Salò. Oggi voglio ricordare sopratutto i rom perchè è un popolo tuttora perseguitato e per il quale le cosiddette democrazie dell'Occidente hanno fatto campagne di odio predicando, come Maroni e tanti altri, la cattiveria di stato scacciandolo da un accampamento all'altro e negando a volte persino l'acqua.
http://it.wikipedia.org/wiki/PorajmosVisualizza altro

il corporativismo al tempo di Monti

Il corporativismo al tempo di Monti e soci

Se un governo si propone di smantellare lo status sociale di tante
categorie di lavoratori o di professionisti sostenendo che la tutela dei
loro interessi specifici è contraria all'interesse generale della società
( un refrain che trovate in tutta la stampa liberista di destra e di
"sinistra") e si serve di compiacenti associazioni di consumatori per
mettere in piedi il teatrino della contrapposizione degli interessi delle
categorie con quelle dei consumatori fa opera di disgregazione piuttosto che
di coesione sociale, genera ansia ed allarmi, inquieta la popolazione e non
costruisce niente di buono e di positivo.
L'accusa che viene rivolta agli agricoltori, ai pescatori, agli avvocati,
ai notai, ai farmacisti, agli autototrasportatori è di corporativismo. La
difesa dei loro interessi aggrediti dal mercato o dal governo è contraria
all'interesse dello Stato. Ma è proprio così?
Intanto cominciamo con dare un significato meno ignobile al termine
corporativismo. Le corporazioni mediovali difesero con successo gli
interessi della nascente borghesia urbana dalle prepotenze dell'aristocrazia
e consentirono il passaggio dal feudalesimo all'età moderna. Diedero vita
alle grandi civiltà comunali che hanno creato la cultura della società
liberale. Le corporazioni medioevali erano un potente fattore di pace perchè
affidavano la prosperità dei loro soci alla pace ed ai commerci.
Ma il corporativismo ha avuto anche altre momenti ed è stato alla base del
fascismo. Ma rispetto il degrado dell'umanità lavoratrice
che è alla base del liberismo moderno, il corporativismo fascista pur
essendo inaccettabile da chi come me è per l'autonomia della classe operaia
dai partiti e dallo Stato è stato di gran lunga migliore. Basta vedere le
istituzioni sociali che ha creato precedendo il welfare di oggi. Molte cose
che la borghesia liberista sta smantellando come l'INPS e l'INAIL e le leggi
di tutela delle donne nascono negli anni trenta e sono state ereditate dalla
Repubblica che ne ha fatto pilastri dei diritti delle persone. So di dire
cose indigeste e che faranno inorridire certe vestali dell'antifascismo ma è
proprio così. Oggi stiamo precipitando in una situazione in cui tutto ciò
che i lavoratori e le popolazioni povere hanno dal 1920 al 1990 viene
rimesso in discussione per essere macinato ed annientato.,
Oggi Monti dichiara che la tutela degli interessi delle singole categorie
diventa una gabbia ed è contraria agli interessi della comunità-Italia. Non
è vero. Sarebbe vero se lo Stato difendesse i cittadini e le categorie dal
mercato. Ma dal momento che il mercato che esiste in Italia sotto forma
oligopolistica impone le sue leggi ed i suoi prezzi la passività del governo
è complicità contraria all'interesse pubblico. La società autostradale, mi
pare di proprietà della Benetton, impone pedaggi che vengono ritenuti iniqui
dagli autotrasportatori. Chi è corporativo? Il camionista che protesta
contro i pedaggi o la Benetton e lo Stato che li pretendono?
In ogni caso la lotta in corso esprime uno stato di malessere profondo
che non è certamente categoriale. In Sicilia con gli agricoltori scioperano
gli studenti ed i disoccupati. Se il movimento è rappresentato da Ferro e
Richichi questo è dovuto alla assenza della sinistra che non ha capito la
crisi dei ceti medi produttivi e, accecata dall'antiberlusconismo, sostiene
Monti ed il suo odioso governo. Certo il movimento delle rivolte che
attraversa l'Italia non incontra dirigenti come Lenin o Stalin capaci di
guidarli verso una trasformazione radicale della società. Quindi è nelle
mani dei leaders che da anni li rappresentano sui quali in ogni caso, come
ha riconosciuto l'ostile Lo Bello presidente della Sicindustria ieri sera
all'Infedele, sono "persone perbene"!

spero che la sinistra cominci a capire la questione dei ceti medi
produttivi attaccati dalla globalizzazione e dal capitalismo di rapina al
pari della classe operaia. Pretendere che il contadino ti venda le sue
arance a dieci centesimi il chilo è lo stesso che pretendere dall'operaio
che lavori a tre euro l'ora.Lo stesso dicasi per gli autotrasportatori
sfruttati dai petrolieri e dai pedaggi e dalle multinazionali per le quali
lavorano. Avere criminalizzato il movimento dei forconi è stato un terribile
errore ma si può sempre correggerlo.

Pietro Ancona

domenica 22 gennaio 2012

l'antipolitica e guglielmo giannini

L'Antipolitica e Guglielmo Giannini
Un tempo si apostrofava colui che criticava la politica dicendo: sei un qualunquista! In effetti trenta o quaranta anni fa la critica a tutta la politica era spesso ingiustificata ed aveva connotazioni diciamo "di destra" che provenivano da un personaggio speciale della politica italiana: Guglielmo Giannini, fondatore di un movimento denominato per l'appunto l'Uomo qualunque. Pubblicava un giornale nella cui testata era raffigurato un omino schiacciato da una grossa pressa. Il movimento ebbe un notevole successo nei primi anni della Repubblica. Pensandoci su Beppe Grillo me lo ricorda molto anche se questo è assai più scaltro ed acculturato di Guglielmo Giannini.
Adesso si dà raramente del qualunquista a chi si colloca all'esterno del sistema e critica quel che succede. Gli si dice che fa dell'antipolitica, accusa singolare e strana nel momento in cui la politica nelle istituzioni e nei partiti è impegnata a rivoltare come un calzino l'Italia a rivedere le istituzioni a cambiare i valori ai quali fa riferimento esplicito la Costituzione.
Il movimento dei forconi è stato subito catalogato come "antipolitico" dagli oligarchi della politica che stanno barricati come in castelli turriti e fortificati nelle istituzioni dove vivono dentro il benessere di una condizione privilegiata e non hanno più nessuna "sinderesi", nessun rapporto con la realtà profonda del Paese.
Naturalmente questa incomprensione e la criminalizzazione che
ne consegue saranno causa di guai per tutti. La Sicilia non è in grado di reggere il costo dei carburanti e la crisi dei prezzi agricoli e la riduzione del welfare. Si potranno dipingere le agitazioni in corso con i colori dell'inferno, si potrà condannare come fanno le associazioni dei consumatori che sono diventate killers del governo e dei poteri forti e fanno da tenaglie della trappola liberista, ma resterà un disagio che potrà portare ad ulteriore disgregazione il Paese.
Quando il Governo attacca tutte le categorie dicendo che i loro interessi sono una gabbia per il Paese sbaglia di grosso. Sbaglia ancora di più quando mostra alterigia verso il movimento siciliano o manda la polizia a manganellare i pastori sardi. Non interesse generale costruito forzando o violentando le categorie. L'interesse generale è la sintesi degli interessi particolari in un patto sociale rinnovato.
Pietro Ancona

l'Unione Sovietica venti anni dopo

HIGINIO POLO
El Viejo Topo

VENTI ANNI SENZA L'UNIONE SOVIETICA



DI HIGINIO POLO

El Viejo Topo



La sparizione dell'Unione Sovietica è una delle tre questioni chiave che spiegano la realtà del XXI secolo. Le altre due sono il rafforzamento della Cina e l'inizio della decadenza nordamericana. La dissoluzione dell'URSS si verificò nel clima di crisi e di scontri che si impadronirono della vita sovietica negli ultimi anni del governo di Gorbachev che, malgrado avesse capeggiato un improrogabile processo di rinnovamento, (all’inizio, reclamando il ritorno al leninismo) avviò una disastrosa gestione del governo e una rozza azione politica che aggravò la crisi e facilitò l'azione degli oppositori del sistema socialista.



Le dispute tra Yeltsin e Gorbachev, il premeditato e precipitoso smantellamento delle strutture sovietiche e dell'organizzazione del Partito Comunista furono accompagnate da rivendicazioni nazionaliste che iniziarono in Armenia e si estesero a macchia di olio nelle altre repubbliche dell'Unione, mentre si aggravava la crisi economica, i rifornimenti scarseggiavano e i legami economici tra le differenti parti dell'Unione incominciavano a deteriorarsi. I problemi che dovette affrontare Gorbachev erano molti, e la sua gestione li rese peggiori: l'aspirazione a una maggiore libertà dall'autoritarismo sovietico e un cocktail esplosivo di cattivi raccolti, di un’inflazione galoppante, del calo della produzione industriale, della mancanza di alimenti e medicine, della scarsità di materie prime, di una riforma monetaria introdotta dall'incompetente Valentin Pavlov nel gennaio del 1991, insieme alle ambizioni personali di molti dirigenti politici e agli sconquassi dell'economia socialista e dello stallo della nuova economia privata, aumentarono il malessere della popolazione.

Nel maggio del 1990 Yeltsin divenne presidente del parlamento (il Soviet supremo) della Federazione Russa, annunciando il proposito di dichiarare la sovranità della repubblica russa, contribuendo così all'aumento della tensione e delle pressioni scissioniste che già premevano sui dirigenti delle repubbliche baltiche.

Poco dopo, nel giugno del 1990, il congresso dei deputati approvò una "dichiarazione di sovranità" che proclamava la supremazia delle leggi russe su quelle sovietiche. Era un siluro indirizzato sulla rotta della grande nave sovietica. Sorprendentemente, la dichiarazione fu approvata da 907 deputati e solo 13 votarono contro. Il 16 giugno il parlamento russo, su proposta di Yeltsin, annullò la funzione dirigenziale del Partito Comunista. Egor Ligachov, uno dei dirigenti contrari a Yeltsin e alla deriva di Gorbachev, dichiarò che il processo intrapreso era molto pericoloso e che avrebbe portato al "crollo" dell'URSS. Furono parole profetiche. Yeltsin, una volta liquidata l'Unione, nel 1992 trasformò questa data in festa nazionale russa, mentre, giustamente, i comunisti oggi la considerano un "giorno nero" per il paese.

Le tensioni nazionaliste svolsero un ruolo importante nella distruzione dell'URSS; a volte, con oscure operazioni che la storiografia non ha analizzato ancora con rigore. Un esempio può essere sufficiente: il 13 gennaio del 1991 ci fu un massacro davanti al ripetitore televisivo di Vilnius, la capitale lituana. Tredici civili e un militare del KGB rimasero uccisi e la stampa internazionale etichettò l’accaduto come una "brutale repressione sovietica", come poi titolarono molti giornali.

Il presidente nordamericano George Bush criticò l'operato di Mosca, mentre la Francia e la Germania, come la NATO, espressero dure parole di condanna: il mondo fu inorridito dall’estrema violenza del governo sovietico che si stava scontrando col governo nazionalista lituano, che in quel momento controllava il Sajudis, diretto da Vytautas Landsbergis. Sette giorni dopo, il 20 gennaio, una nutrita manifestazione a Mosca chiese le dimissioni di Gorbachev, mentre Yeltsin li accusava di incitare l’odio nazionalista, accusa assolutamente falsa. Un'ondata di proteste contro Gorbachev e il PCUS, in solidarietà coi governi nazionalisti del Baltico, scosse molte città dell'Unione Sovietica.

Tuttavia, ora sappiamo che, ad esempio, Audrius Butkevičius, membro del Sajudis e responsabile della sicurezza nel governo nazionalista lituano, e poi ministro della Difesa, si è pavoneggiato davanti alla stampa per il suo ruolo nella preparazione di quegli avvenimenti che avevano l'obiettivo di screditare l'Esercito sovietico e il KGB: alla fine ha riconosciuto che già sapeva che ci sarebbero state delle vittime davanti al ripetitore della televisione, e ora sappiamo che i morti furono colpiti dai cecchini appostati sui tetti degli edifici visto che gli spari non avevano una traiettoria orizzontale, come sarebbe avvenuto nel caso di un attacco delle truppe sovietiche che erano di fronte all'ingresso del ripetitore.

Butkevičius ha riconosciuto anni dopo che alcuni membri del DPT (Dipartimento di Protezione del Territorio, l'embrione dell'esercito creato dal governo nazionalista) che si trovavano sulla torre della televisione, spararono alla folla. Non si cerca di elaborare una teoria della cospirazione per la caduta dell'URSS, ma ci furono provocazioni e i piani di destabilizzazione. E ci furono anche le tensioni nazionaliste, per cui queste provocazioni agirono su un terreno già fertile, eccitando la passione e lo scontro.

Nel marzo del 1991 ci fu il referendum sul mantenimento dell'URSS, in questo clima di tensioni nazionaliste. I governi di sei repubbliche si rifiutarono di organizzare la consultazione (le tre baltiche che avevano dichiarato già la propria indipendenza, anche se non era ancora effettiva, e l’Armena,la Georgia e la Moldavia) e ciò nonostante l'80 per cento degli elettori sovietici partecipò, e il 76,4% si espresse a favore della conservazione e il 21,4 votò contro, una quota che comprende le repubbliche dove non fu convocato il referendum.

Lo schiacciante risultato a favore del mantenimento dell'URSS fu ignorato dalle forze che lavoravano alla rottura, dai nazionalisti e dai "riformatori" che controllavano già buona parte delle strutture di potere, come le istituzioni russe. Yeltsin, da presidente del parlamento russo, sviluppò un doppio gioco: non si oppose pubblicamente al mantenimento dell'Unione, ma cospirò attivamente con altre repubbliche per distruggerla.

In realtà, una delle ragioni, se non la più importante, per la convocazione del referendum del marzo del 1991 fu il tentativo del governo centrale di Gorbachev di limitare la voracità dei circoli di potere di alcuni repubbliche e, soprattutto, di frenare la sconsiderata corsa di Yeltsin verso il rafforzamento del proprio potere, che aveva bisogno della distruzione del potere centrale rappresentato da Gorbachev e dal governo sovietico. Senza dimenticare che, nel clima di confusione e scontento, la demagogia di Yeltsin conquistò molti seguaci.

Così, prima del tentativo di colpo di stato dell'estate del 1991, Yeltsin riconobbe a luglio l'indipendenza della Lituania, con una palese provocazione rivolta al governo sovietico che vide Gorbachev incapace di rispondere. I dirigenti delle repubbliche vollero consolidare il proprio potere senza dover rendere conto al centro federale, e per questo avevano bisogno della rottura dell'Unione Sovietica.

Una parte dei sostenitori del mantenimento dell'URSS facilitò con la propria goffaggine i progressi della coalizione segreta tra nazionalisti e "riformatori" liberali che stavano anche ricevendo il sostegno da parte di quei settori dell’economia privata che iniziarono a prosperare sotto Gorbachev, e perfino dal mondo della delinquenza che subodorava l’eventualità di prolifici commerci, per non parlare dei dirigenti del PCUS, come Alexander Yakovlev, che lavoravano attivamente per distruggere il partito.

Alla vigilia del giorno fissato per la firma del nuovo trattato dell'Unione, i golpisti fecero la comparsa con un Comitato statale per la situazione di emergenza nell'URSS. Il comitato contava sul vicepresidente Guennadi Yanaev, il primo ministro Pavlov, il ministro della Difesa Yazov, il presidente del KGB Kriuchkov, il ministro dell'Interno Boris Pugo, e su altri dirigenti, come Baklanov e Tiziakov. Il fallimento del golpe dell’agosto 1991, favorito da settori del PCUS contrari alla politica di Gorbachev, servì da volano per la controrivoluzione e incoraggiò le forze che propugnavano, ancora senza esprimerlo pubblicamente, la dissoluzione dell'URSS.

L'improvvisazione dei golpisti, malgrado potessero contare sul responsabile del KGB e sul ministro della Difesa, giunse addirittura ad annunciare il golpe prima ancora di muovere le truppe che avrebbero dovuto appoggiarli: non chiusero neppure gli aeroporti, non requisirono i mezzi di comunicazione, non fermarono Yeltsin e gli altri dirigenti riformisti, e la stampa internazionale poté quindi muoversi a suo piacimento.

I servizi segreti nordamericani confermarono l'incredibile improvvisazione del colpo di stato e l'assenza di importanti movimenti di truppe che avrebbero potuto sostenerlo. In realtà, la goffaggine marchiana dei golpisti andò a favore favorevole dei settori anticomunisti che posero fine all'URSS: anche se asseriscono l’opposto, la loro azione, come quella di Gorbachev, facilitò la strada ai sostenitori della restaurazione capitalista.

Dopo il fallimento del golpe, Yeltsin accelero i passi: il 24 agosto riconobbe l'indipendenza dell'Estonia e della Lettonia. E non fu solo Yeltsin a svolgere le prime fasi della proibizione del comunismo, anche Gorbachev fu incapace di opporsi alle pressioni della destra. Il 24 agosto del 1991, Gorbachev annunciò le sue dimissioni da segretario generale del PCUS, la dissoluzione del comitato centrale del partito e il divieto delle attività delle cellule comuniste nell'esercito, nel KGB, nel ministero dell'Interno, così come la confisca di tutte le sue proprietà.

Il PCUS rimase senza organizzazione e risorse. Non ci furono limiti alla rivincita anticomunista. Yeltsin proibì la pubblicazione di tutti i giornali e pubblicazioni comuniste. La debolezza di Gorbachev era già evidente, al punto che Yeltsin, presidente della repubblica russa, fu capace di imporre ministri di sua fiducia al proprio presidente sovietico alla Difesa e all’Interno, le posizioni chiave nella critica situazione di quel momento.

Yeltsin aveva bandito il PCUS in Russia e pignorato i suoi archivi (che, di fatto, erano le centrali del partito comunista) e altre repubbliche lo imitarono (Moldavia, Estonia, Lettonia e Lituania si affrettarono a proibire il partito comunista e chiedere agli Stati Uniti un appoggio per la loro indipendenza), mentre il sindaco "riformista" di Mosca pignorò e pose i sigilli agli edifici comunisti nella capitale. Da parte sua, Kravchuk annunciò il 24 agosto l’abbandono dal proprio incarico nel PCUS e nel Partito Comunista Ucraino. Yeltsin, che contava su un importante sostegno sociale, si astenne accuratamente dal rivelare il suo proposito di restaurare il capitalismo.

La sfrenata corsa verso il disastro proseguì nei mesi finali del 1991. Il referendum celebrato in Ucraina il 1° dicembre del 1991 poté contare sul controllo dell'apparato di Kravchuk, che fino a pochi mesi prima era il segretario comunista della repubblica riconvertitosi in nazionalista e guida dell'indipendenza ucraina.

Dopo i risultati, nel giorno successivo Kravchuk annunciò il suo veto per firmare il Trattato dell'Unione col resto delle repubbliche sovietiche. Kravchuk fu il prototipo del perfetto opportunista, pronto ad adottare qualunque ideologia per conservare la sua posizione: nell’agosto del 1991, nel tentativo di golpe contro Gorbachev, non chiarì bene la propria posizione, e non appoggiò né Yeltsin né Gorbachev, ma dopo il fallimento adottò una posizione nazionalista, abbandonò il partito comunista e si iniziò a reclamare l'indipendenza dell’Ucraina. Era un professionista del potere che intuì gli avvenimenti, pur essendo stato eletto presidente del parlamento ucraino nel 1990 dai deputati comunisti, dopo il fallimento del colpo abbandonò il comunismo. A questo punto le cose precipitarono. Se alcuni mesi prima, il 17 marzo del 1991, la popolazione ucraina aveva appoggiato a maggioranza il mantenimento dell'URSS (l’83 per cento votò a favore e solo il 16 per cento contro), la massiccia campagna del potere controllato da Kravchuk riuscì in un miracolo e, otto mesi dopo, la popolazione ucraina appoggiò la dichiarazione d’indipendenza del parlamento al 90 per cento, con una partecipazione dell’84 per cento.

Yeltsin annunciò, a pretesto, che se l’Ucraina non avesse firmato il nuovo trattato dell'Unione, non lo avrebbe fatto neppure la Russia: fu l'esplosione senza controllo dell'URSS. Alle spalle ci fu un intenso lavoro occidentale: due giorni dopo il referendum ucraino del 1° dicembre, Kravchuk parlò con Bush del riconoscimento dell'indipendenza: anche se Washington mantenne una certa cautela ufficiale per non intorbidire le relazioni con Mosca, la sua diplomazia e i servizi segreti lavorarono con forza appoggiando le forze scissioniste.

Anche Ungheria e Polonia, già diventati paesi satellite di Washington, riconobbero l’Ucraina. Yeltsin fece il suo, già lanciato nella distruzione dell'URSS. Subito dopo, fu avviato il piano per dissolvere l'Unione Sovietica, in un'operazione capeggiata da Yeltsin, Kravchuk e dal bielorusso Shushkevich l’8 dicembre del 1991 che si riunirono nella residenza di Viskuli, nella riserva naturale bielorussa di Belovezhskaya Puscha, dove proclamarono la dissoluzione dell'URSS, affrettandosi di informare George Bush per ottenere la sua approvazione.

Mancano molte informazioni per indagare su quell'operazione, anche se i protagonisti vivente, come Shushkevich, insistono nel dire che la dissoluzione dell'URSS non fu preparata in anticipo e che fu decisa all’improvviso. Il presidente bielorusso fu incaricato di comunicare l'accordo a un Gorbachev impotente e superato dagli avvenimenti - che già sapeva che si sarebbe tenuta la riunione a Viskuli - e gli rese noto, inoltre, che George Bush aveva acconsentito alla decisione. La rapida successione degli avvenimenti - la firma del 21 dicembre ad Almaty da parte di undici repubbliche sovietiche dei verbali per la creazione della CSI, le dimissioni di Gorbachev quattro giorni dopo e il ritiro simbolico della bandiera rossa sovietica dal Cremlino - segnarono il fine dell'Unione Sovietica.

In una corsa senza freni di richieste nazionaliste, molte forze politiche, che erano cresciute difendendo la perestroika, reclamarono la sovranità e l’indipendenza, asserendo che la singole repubbliche avrebbero iniziato un nuovo cammino verso la prosperità e il progresso, senza i limiti dovuti all'appartenenza all'Unione Sovietica.

Dal Caucaso alle repubbliche baltiche, passando per Ucraina, Bielorussia e Moldavia (con l'eccezione delle repubbliche centroasiatiche), la gran parte dei protagonisti di quel momento si affrettarono a rompere i legami sovietici per impadronirsi del potere nelle proprie repubbliche.

Un'alleanza tacita tra settori nazionalisti e liberali (che avrebbero dovuto illuminare la via verso la libertà e la prosperità), tra vecchi dissidenti, alti funzionari dello Stato e direttori di fabbriche e agglomerati industriali, opportunisti del PCUS, dirigenti comunisti riconvertiti a gran velocità per mantenere il proprio status (Yeltsin l'aveva fatto già, e gli si accodarono Yakovlev, Kravchuk, Shushkevich, Nazarbayev, Aliev, Shevardnadze, Karimov, eccetera), settori comunisti disorientati e ambiziosi capi militari disposti a tutto (perfino a tradire il proprio giuramento, per mantenersi nella graduatoria o per dirigere gli eserciti di ogni repubblica) confluirono nell’iniziativa di demolizione dell'URSS.

Con tutto il potere nelle sue mani e col partito comunista disarticolato e bandito, Yeltsin e i dirigenti delle repubbliche si lanciarono al recupero del bottino, alla privatizzazione selvaggia, al furto della proprietà pubblica.

Non ci furono freni. Dopo, per schiacciare la resistenza verso la deriva capitalista, sarebbe arrivato il colpo di Stato di Yeltsin nel 1993 che ha inaugurato la via militare al capitalismo, il sanguinante massacro per le strade di Mosca, il bombardamento del Parlamento (qualcosa di inaudito nell'Europa dopo il 1945, un fatto che fece inorridire il mondo, ma che fu appoggiato dai i governi di Washington, Parigi, Berlino e Londra) e, alla fine, la manipolazione e il furto delle elezioni del 1996 in Russia, che furono cinte dal candidato del Partito Comunista, Guennadi Ziuganov.

La distruzione dell'URSS fece cadere in povertà milioni di persone, distrusse l'industria sovietica, disarticolò in toto la complessa struttura scientifica del paese, distrusse la sanità e l'educazione pubbliche e portò all'esplosione di guerre civili in varie repubbliche, molte delle quali caddero nelle mani di satrapi e dittatori.

È lampante che ci fosse un'evidente insoddisfazione tra una parte importante della popolazione sovietica, insoddisfazione che affondava le radici negli anni della repressione stalinista e che si acutizzò per l'ossessivo controllo della popolazione, e, ancor di più, per la disorganizzazione progressiva e la mancanza di alimenti e forniture che caratterizzarono gli ultimi anni sotto Gorbachev, ma la dissoluzione peggiorò tutti questi aspetti. Questa parte di popolazione era disposta a credere persino le bugie che dilagavano in URSS, diffuse a volte dai mezzi di comunicazione occidentali.

Nelle analisi e nella storiografia che si è costruita in questi vent’anni, è stato un luogo comune l’interrogarsi sulle ragioni dell’assenza di risposta del paese sovietico di fronte alla dissoluzione dell'URSS. Vent’anni dopo, lo sguardo d’insieme è più chiaro: l'acutizzazione della crisi paralizzò buona parte delle forze del paese, le dispute nazionaliste centrarono il dibattito sui supposti vantaggi della dissoluzione dell'Unione (tutte le repubbliche, perfino quella russa o almeno i suoi dirigenti, asserirono che le altre si stavano approfittando delle proprie risorse, che fossero agricole o minerarie, industriali o dei servizi, e che la separazione avrebbe provocato il superamento della crisi e l'inizio di una nuova prosperità) e l'ambizione politica di molti dirigenti, nuovi o vecchi, verteva sulla creazione di nuovi centri di potere, di nuove repubbliche.

Inoltre, nessuno poteva organizzare la resistenza, perché i principali dirigenti dello Stato stavano capeggiando l'operazione di smantellamento (in modo attivo come Yeltsin, o in modo passivo come Gorbachev) e il partito comunista era stato bandito e le sue organizzazioni smantellate. Il PCUS si era fuso nel corso degli anni con la struttura dello Stato, e questa situazione gli dava forza, ma anche debolezza: quando fu vietato, i milioni di militanti rimasero orfani, senza iniziativa, e molti di essi rimasero in attesa, impotenti di fronte ai rapidi cambiamenti.

Nel passato, questi dirigenti opportunisti (come Yeltsin, Aliev, Nazarbayev, presidente del Kazakistan dalla sparizione dell'URSS, la cui dittatura ha appena proibito l'attività del nuovo Partito Comunista Kazako) dovevano agire nell’ambito del partito unico, e di alcune leggi e di una costituzione che li obbligarono a sviluppare una politica favorevole agli interessi popolari.

Il collasso dell'Unione mostrò il suo vero carattere, trasformandosi nel saccheggio della proprietà pubblica e configurando regimi repressivi, dittatoriali e populisti, che ricevettero l'immediato appoggio dei paesi capitalisti occidentali. Con una sinistra ironia, i dirigenti che furono protagonisti del più grande furto della storia furono presentati dalla stampa russa e da quella occidentale come "progressisti" e "innovatori", mentre chi cercò di salvare l'URSS e di mantenere le conquiste sociali della popolazione furono ostracizzati come "conservatori" e "immobilisti".

Questi progressisti si sarebbero poi lanciati verso una sfrenata predazione delle ricchezze pubbliche, rubando a piene mani, con i "liberatori" e i "progressisti" che avrebbero guidato la più grande truffa della storia e un massacro di dimensioni terrificanti, non solo per il bombardamento del Parlamento, ma anche per un'operazione di ingegneria sociale (la privatizzazione selvaggia) che ha causato la morte di milioni di persone.

Un aspetto secondario del tema di cui ci stiamo occupando, ma rilevante per le implicazioni nel futuro, è la questione di chi guadagnò dalla sparizione dell'URSS. Naturalmente, non fu la popolazione sovietica che, vent’anni dopo, ha ancora un tenore di vita inferiore a quello che aveva raggiunto sotto l'URSS. Tre esempi possono bastare: la Russia aveva centocinquanta milioni di abitanti, e ora ne ha appena centoquarantadue; la Lituania che contava nel 1991 tre milioni e settecentomila abitanti, ora raggiunge solo i due milioni e mezzo; l’Ucraina, che ne aveva cinquanta milioni, oggi arriva a quarantacinque. Oltre ai milioni di morti, la speranza di vita è diminuita in tutte le repubbliche. La sparizione dell'URSS fu una catastrofe per la popolazione che cadde in mani di delinquenti, di satrapi, di ladri, molti dei quali ora riconvertiti in "rispettabili imprenditori e politici". Gli Stati Uniti si affrettarono a cantare vittoria, e tutto sembrava indicarlo: il suo principale rivale ideologico e strategico aveva smesso di esistere. Ma, se Washington guadagnò sul momento, la sua disastrosa gestione di un mondo unipolare diede inizio alla propria crisi: la sua decadenza, anche se relativa, è un fatto e il ripiegamento militare in tutto il mondo si aggraverà, a dispetto dei voleri dei governanti.

Vent’anni dopo, l'Unione Sovietica è ancora presente nella memoria dei suoi cittadini, tanto tra i veterani come tra le nuove generazioni. Olga Onoiko, una giovane scrittrice di ventisei anni che ha guadagnato il prestigioso premio Debut, ha affermato alcuni mesi fa, con un'ingenuità che rivela anche la coscienza di una gran perdita: "L'Unione Sovietica appare nella mia mente come un paese grande e bello, un paese soleggiato e festante, il paese dei sogni della mia infanzia, con un chiaro cielo azzurro e bandiere rosse che sventolano." Da parte sua, Irina Antonova, una donna eccezionale di ottantanove anni, direttrice del celebre Museo Pushkin di Mosca, ha aggiunto: "L'epoca di Stalin fu un momento duro per la cultura e per il paese. Ma poi ho visto, tempo dopo, un gran paese che si è perso in modo involontario e non necessaria. [...] A volte mi dico che voglio solo andare all'altro mondo dopo aver visto di nuovo un germoglio di qualcosa di nuovo, qualcosa di realmente nuovo. Un Picasso che trasformi questa realtà dall'arte, dalla bellezza e dall'emozione umana. Ma la cultura di massa ha divorato tutto. Ha abbassato il nostro livello. Anche se passerà. È solo un periodo brutto. E lo supereremo.”

**********************************************

VENTI ANNI SENZA L'UNIONE SOVIETICA

Postato il Sabato, 21 gennaio @ 21:35:00 CST di supervice



DI HIGINIO POLO

El Viejo Topo



La sparizione dell'Unione Sovietica è una delle tre questioni chiave che spiegano la realtà del XXI secolo. Le altre due sono il rafforzamento della Cina e l'inizio della decadenza nordamericana. La dissoluzione dell'URSS si verificò nel clima di crisi e di scontri che si impadronirono della vita sovietica negli ultimi anni del governo di Gorbachev che, malgrado avesse capeggiato un improrogabile processo di rinnovamento, (all’inizio, reclamando il ritorno al leninismo) avviò una disastrosa gestione del governo e una rozza azione politica che aggravò la crisi e facilitò l'azione degli oppositori del sistema socialista.



Le dispute tra Yeltsin e Gorbachev, il premeditato e precipitoso smantellamento delle strutture sovietiche e dell'organizzazione del Partito Comunista furono accompagnate da rivendicazioni nazionaliste che iniziarono in Armenia e si estesero a macchia di olio nelle altre repubbliche dell'Unione, mentre si aggravava la crisi economica, i rifornimenti scarseggiavano e i legami economici tra le differenti parti dell'Unione incominciavano a deteriorarsi. I problemi che dovette affrontare Gorbachev erano molti, e la sua gestione li rese peggiori: l'aspirazione a una maggiore libertà dall'autoritarismo sovietico e un cocktail esplosivo di cattivi raccolti, di un’inflazione galoppante, del calo della produzione industriale, della mancanza di alimenti e medicine, della scarsità di materie prime, di una riforma monetaria introdotta dall'incompetente Valentin Pavlov nel gennaio del 1991, insieme alle ambizioni personali di molti dirigenti politici e agli sconquassi dell'economia socialista e dello stallo della nuova economia privata, aumentarono il malessere della popolazione.

Nel maggio del 1990 Yeltsin divenne presidente del parlamento (il Soviet supremo) della Federazione Russa, annunciando il proposito di dichiarare la sovranità della repubblica russa, contribuendo così all'aumento della tensione e delle pressioni scissioniste che già premevano sui dirigenti delle repubbliche baltiche.

Poco dopo, nel giugno del 1990, il congresso dei deputati approvò una "dichiarazione di sovranità" che proclamava la supremazia delle leggi russe su quelle sovietiche. Era un siluro indirizzato sulla rotta della grande nave sovietica. Sorprendentemente, la dichiarazione fu approvata da 907 deputati e solo 13 votarono contro. Il 16 giugno il parlamento russo, su proposta di Yeltsin, annullò la funzione dirigenziale del Partito Comunista. Egor Ligachov, uno dei dirigenti contrari a Yeltsin e alla deriva di Gorbachev, dichiarò che il processo intrapreso era molto pericoloso e che avrebbe portato al "crollo" dell'URSS. Furono parole profetiche. Yeltsin, una volta liquidata l'Unione, nel 1992 trasformò questa data in festa nazionale russa, mentre, giustamente, i comunisti oggi la considerano un "giorno nero" per il paese.

Le tensioni nazionaliste svolsero un ruolo importante nella distruzione dell'URSS; a volte, con oscure operazioni che la storiografia non ha analizzato ancora con rigore. Un esempio può essere sufficiente: il 13 gennaio del 1991 ci fu un massacro davanti al ripetitore televisivo di Vilnius, la capitale lituana. Tredici civili e un militare del KGB rimasero uccisi e la stampa internazionale etichettò l’accaduto come una "brutale repressione sovietica", come poi titolarono molti giornali.

Il presidente nordamericano George Bush criticò l'operato di Mosca, mentre la Francia e la Germania, come la NATO, espressero dure parole di condanna: il mondo fu inorridito dall’estrema violenza del governo sovietico che si stava scontrando col governo nazionalista lituano, che in quel momento controllava il Sajudis, diretto da Vytautas Landsbergis. Sette giorni dopo, il 20 gennaio, una nutrita manifestazione a Mosca chiese le dimissioni di Gorbachev, mentre Yeltsin li accusava di incitare l’odio nazionalista, accusa assolutamente falsa. Un'ondata di proteste contro Gorbachev e il PCUS, in solidarietà coi governi nazionalisti del Baltico, scosse molte città dell'Unione Sovietica.

Tuttavia, ora sappiamo che, ad esempio, Audrius Butkevičius, membro del Sajudis e responsabile della sicurezza nel governo nazionalista lituano, e poi ministro della Difesa, si è pavoneggiato davanti alla stampa per il suo ruolo nella preparazione di quegli avvenimenti che avevano l'obiettivo di screditare l'Esercito sovietico e il KGB: alla fine ha riconosciuto che già sapeva che ci sarebbero state delle vittime davanti al ripetitore della televisione, e ora sappiamo che i morti furono colpiti dai cecchini appostati sui tetti degli edifici visto che gli spari non avevano una traiettoria orizzontale, come sarebbe avvenuto nel caso di un attacco delle truppe sovietiche che erano di fronte all'ingresso del ripetitore.

Butkevičius ha riconosciuto anni dopo che alcuni membri del DPT (Dipartimento di Protezione del Territorio, l'embrione dell'esercito creato dal governo nazionalista) che si trovavano sulla torre della televisione, spararono alla folla. Non si cerca di elaborare una teoria della cospirazione per la caduta dell'URSS, ma ci furono provocazioni e i piani di destabilizzazione. E ci furono anche le tensioni nazionaliste, per cui queste provocazioni agirono su un terreno già fertile, eccitando la passione e lo scontro.

Nel marzo del 1991 ci fu il referendum sul mantenimento dell'URSS, in questo clima di tensioni nazionaliste. I governi di sei repubbliche si rifiutarono di organizzare la consultazione (le tre baltiche che avevano dichiarato già la propria indipendenza, anche se non era ancora effettiva, e l’Armena,la Georgia e la Moldavia) e ciò nonostante l'80 per cento degli elettori sovietici partecipò, e il 76,4% si espresse a favore della conservazione e il 21,4 votò contro, una quota che comprende le repubbliche dove non fu convocato il referendum.

Lo schiacciante risultato a favore del mantenimento dell'URSS fu ignorato dalle forze che lavoravano alla rottura, dai nazionalisti e dai "riformatori" che controllavano già buona parte delle strutture di potere, come le istituzioni russe. Yeltsin, da presidente del parlamento russo, sviluppò un doppio gioco: non si oppose pubblicamente al mantenimento dell'Unione, ma cospirò attivamente con altre repubbliche per distruggerla.

In realtà, una delle ragioni, se non la più importante, per la convocazione del referendum del marzo del 1991 fu il tentativo del governo centrale di Gorbachev di limitare la voracità dei circoli di potere di alcuni repubbliche e, soprattutto, di frenare la sconsiderata corsa di Yeltsin verso il rafforzamento del proprio potere, che aveva bisogno della distruzione del potere centrale rappresentato da Gorbachev e dal governo sovietico. Senza dimenticare che, nel clima di confusione e scontento, la demagogia di Yeltsin conquistò molti seguaci.

Così, prima del tentativo di colpo di stato dell'estate del 1991, Yeltsin riconobbe a luglio l'indipendenza della Lituania, con una palese provocazione rivolta al governo sovietico che vide Gorbachev incapace di rispondere. I dirigenti delle repubbliche vollero consolidare il proprio potere senza dover rendere conto al centro federale, e per questo avevano bisogno della rottura dell'Unione Sovietica.

Una parte dei sostenitori del mantenimento dell'URSS facilitò con la propria goffaggine i progressi della coalizione segreta tra nazionalisti e "riformatori" liberali che stavano anche ricevendo il sostegno da parte di quei settori dell’economia privata che iniziarono a prosperare sotto Gorbachev, e perfino dal mondo della delinquenza che subodorava l’eventualità di prolifici commerci, per non parlare dei dirigenti del PCUS, come Alexander Yakovlev, che lavoravano attivamente per distruggere il partito.

Alla vigilia del giorno fissato per la firma del nuovo trattato dell'Unione, i golpisti fecero la comparsa con un Comitato statale per la situazione di emergenza nell'URSS. Il comitato contava sul vicepresidente Guennadi Yanaev, il primo ministro Pavlov, il ministro della Difesa Yazov, il presidente del KGB Kriuchkov, il ministro dell'Interno Boris Pugo, e su altri dirigenti, come Baklanov e Tiziakov. Il fallimento del golpe dell’agosto 1991, favorito da settori del PCUS contrari alla politica di Gorbachev, servì da volano per la controrivoluzione e incoraggiò le forze che propugnavano, ancora senza esprimerlo pubblicamente, la dissoluzione dell'URSS.

L'improvvisazione dei golpisti, malgrado potessero contare sul responsabile del KGB e sul ministro della Difesa, giunse addirittura ad annunciare il golpe prima ancora di muovere le truppe che avrebbero dovuto appoggiarli: non chiusero neppure gli aeroporti, non requisirono i mezzi di comunicazione, non fermarono Yeltsin e gli altri dirigenti riformisti, e la stampa internazionale poté quindi muoversi a suo piacimento.

I servizi segreti nordamericani confermarono l'incredibile improvvisazione del colpo di stato e l'assenza di importanti movimenti di truppe che avrebbero potuto sostenerlo. In realtà, la goffaggine marchiana dei golpisti andò a favore favorevole dei settori anticomunisti che posero fine all'URSS: anche se asseriscono l’opposto, la loro azione, come quella di Gorbachev, facilitò la strada ai sostenitori della restaurazione capitalista.

Dopo il fallimento del golpe, Yeltsin accelero i passi: il 24 agosto riconobbe l'indipendenza dell'Estonia e della Lettonia. E non fu solo Yeltsin a svolgere le prime fasi della proibizione del comunismo, anche Gorbachev fu incapace di opporsi alle pressioni della destra. Il 24 agosto del 1991, Gorbachev annunciò le sue dimissioni da segretario generale del PCUS, la dissoluzione del comitato centrale del partito e il divieto delle attività delle cellule comuniste nell'esercito, nel KGB, nel ministero dell'Interno, così come la confisca di tutte le sue proprietà.

Il PCUS rimase senza organizzazione e risorse. Non ci furono limiti alla rivincita anticomunista. Yeltsin proibì la pubblicazione di tutti i giornali e pubblicazioni comuniste. La debolezza di Gorbachev era già evidente, al punto che Yeltsin, presidente della repubblica russa, fu capace di imporre ministri di sua fiducia al proprio presidente sovietico alla Difesa e all’Interno, le posizioni chiave nella critica situazione di quel momento.

Yeltsin aveva bandito il PCUS in Russia e pignorato i suoi archivi (che, di fatto, erano le centrali del partito comunista) e altre repubbliche lo imitarono (Moldavia, Estonia, Lettonia e Lituania si affrettarono a proibire il partito comunista e chiedere agli Stati Uniti un appoggio per la loro indipendenza), mentre il sindaco "riformista" di Mosca pignorò e pose i sigilli agli edifici comunisti nella capitale. Da parte sua, Kravchuk annunciò il 24 agosto l’abbandono dal proprio incarico nel PCUS e nel Partito Comunista Ucraino. Yeltsin, che contava su un importante sostegno sociale, si astenne accuratamente dal rivelare il suo proposito di restaurare il capitalismo.

La sfrenata corsa verso il disastro proseguì nei mesi finali del 1991. Il referendum celebrato in Ucraina il 1° dicembre del 1991 poté contare sul controllo dell'apparato di Kravchuk, che fino a pochi mesi prima era il segretario comunista della repubblica riconvertitosi in nazionalista e guida dell'indipendenza ucraina.

Dopo i risultati, nel giorno successivo Kravchuk annunciò il suo veto per firmare il Trattato dell'Unione col resto delle repubbliche sovietiche. Kravchuk fu il prototipo del perfetto opportunista, pronto ad adottare qualunque ideologia per conservare la sua posizione: nell’agosto del 1991, nel tentativo di golpe contro Gorbachev, non chiarì bene la propria posizione, e non appoggiò né Yeltsin né Gorbachev, ma dopo il fallimento adottò una posizione nazionalista, abbandonò il partito comunista e si iniziò a reclamare l'indipendenza dell’Ucraina. Era un professionista del potere che intuì gli avvenimenti, pur essendo stato eletto presidente del parlamento ucraino nel 1990 dai deputati comunisti, dopo il fallimento del colpo abbandonò il comunismo. A questo punto le cose precipitarono. Se alcuni mesi prima, il 17 marzo del 1991, la popolazione ucraina aveva appoggiato a maggioranza il mantenimento dell'URSS (l’83 per cento votò a favore e solo il 16 per cento contro), la massiccia campagna del potere controllato da Kravchuk riuscì in un miracolo e, otto mesi dopo, la popolazione ucraina appoggiò la dichiarazione d’indipendenza del parlamento al 90 per cento, con una partecipazione dell’84 per cento.

Yeltsin annunciò, a pretesto, che se l’Ucraina non avesse firmato il nuovo trattato dell'Unione, non lo avrebbe fatto neppure la Russia: fu l'esplosione senza controllo dell'URSS. Alle spalle ci fu un intenso lavoro occidentale: due giorni dopo il referendum ucraino del 1° dicembre, Kravchuk parlò con Bush del riconoscimento dell'indipendenza: anche se Washington mantenne una certa cautela ufficiale per non intorbidire le relazioni con Mosca, la sua diplomazia e i servizi segreti lavorarono con forza appoggiando le forze scissioniste.

Anche Ungheria e Polonia, già diventati paesi satellite di Washington, riconobbero l’Ucraina. Yeltsin fece il suo, già lanciato nella distruzione dell'URSS. Subito dopo, fu avviato il piano per dissolvere l'Unione Sovietica, in un'operazione capeggiata da Yeltsin, Kravchuk e dal bielorusso Shushkevich l’8 dicembre del 1991 che si riunirono nella residenza di Viskuli, nella riserva naturale bielorussa di Belovezhskaya Puscha, dove proclamarono la dissoluzione dell'URSS, affrettandosi di informare George Bush per ottenere la sua approvazione.

Mancano molte informazioni per indagare su quell'operazione, anche se i protagonisti vivente, come Shushkevich, insistono nel dire che la dissoluzione dell'URSS non fu preparata in anticipo e che fu decisa all’improvviso. Il presidente bielorusso fu incaricato di comunicare l'accordo a un Gorbachev impotente e superato dagli avvenimenti - che già sapeva che si sarebbe tenuta la riunione a Viskuli - e gli rese noto, inoltre, che George Bush aveva acconsentito alla decisione. La rapida successione degli avvenimenti - la firma del 21 dicembre ad Almaty da parte di undici repubbliche sovietiche dei verbali per la creazione della CSI, le dimissioni di Gorbachev quattro giorni dopo e il ritiro simbolico della bandiera rossa sovietica dal Cremlino - segnarono il fine dell'Unione Sovietica.

In una corsa senza freni di richieste nazionaliste, molte forze politiche, che erano cresciute difendendo la perestroika, reclamarono la sovranità e l’indipendenza, asserendo che la singole repubbliche avrebbero iniziato un nuovo cammino verso la prosperità e il progresso, senza i limiti dovuti all'appartenenza all'Unione Sovietica.

Dal Caucaso alle repubbliche baltiche, passando per Ucraina, Bielorussia e Moldavia (con l'eccezione delle repubbliche centroasiatiche), la gran parte dei protagonisti di quel momento si affrettarono a rompere i legami sovietici per impadronirsi del potere nelle proprie repubbliche.

Un'alleanza tacita tra settori nazionalisti e liberali (che avrebbero dovuto illuminare la via verso la libertà e la prosperità), tra vecchi dissidenti, alti funzionari dello Stato e direttori di fabbriche e agglomerati industriali, opportunisti del PCUS, dirigenti comunisti riconvertiti a gran velocità per mantenere il proprio status (Yeltsin l'aveva fatto già, e gli si accodarono Yakovlev, Kravchuk, Shushkevich, Nazarbayev, Aliev, Shevardnadze, Karimov, eccetera), settori comunisti disorientati e ambiziosi capi militari disposti a tutto (perfino a tradire il proprio giuramento, per mantenersi nella graduatoria o per dirigere gli eserciti di ogni repubblica) confluirono nell’iniziativa di demolizione dell'URSS.

Con tutto il potere nelle sue mani e col partito comunista disarticolato e bandito, Yeltsin e i dirigenti delle repubbliche si lanciarono al recupero del bottino, alla privatizzazione selvaggia, al furto della proprietà pubblica.

Non ci furono freni. Dopo, per schiacciare la resistenza verso la deriva capitalista, sarebbe arrivato il colpo di Stato di Yeltsin nel 1993 che ha inaugurato la via militare al capitalismo, il sanguinante massacro per le strade di Mosca, il bombardamento del Parlamento (qualcosa di inaudito nell'Europa dopo il 1945, un fatto che fece inorridire il mondo, ma che fu appoggiato dai i governi di Washington, Parigi, Berlino e Londra) e, alla fine, la manipolazione e il furto delle elezioni del 1996 in Russia, che furono cinte dal candidato del Partito Comunista, Guennadi Ziuganov.

La distruzione dell'URSS fece cadere in povertà milioni di persone, distrusse l'industria sovietica, disarticolò in toto la complessa struttura scientifica del paese, distrusse la sanità e l'educazione pubbliche e portò all'esplosione di guerre civili in varie repubbliche, molte delle quali caddero nelle mani di satrapi e dittatori.

È lampante che ci fosse un'evidente insoddisfazione tra una parte importante della popolazione sovietica, insoddisfazione che affondava le radici negli anni della repressione stalinista e che si acutizzò per l'ossessivo controllo della popolazione, e, ancor di più, per la disorganizzazione progressiva e la mancanza di alimenti e forniture che caratterizzarono gli ultimi anni sotto Gorbachev, ma la dissoluzione peggiorò tutti questi aspetti. Questa parte di popolazione era disposta a credere persino le bugie che dilagavano in URSS, diffuse a volte dai mezzi di comunicazione occidentali.

Nelle analisi e nella storiografia che si è costruita in questi vent’anni, è stato un luogo comune l’interrogarsi sulle ragioni dell’assenza di risposta del paese sovietico di fronte alla dissoluzione dell'URSS. Vent’anni dopo, lo sguardo d’insieme è più chiaro: l'acutizzazione della crisi paralizzò buona parte delle forze del paese, le dispute nazionaliste centrarono il dibattito sui supposti vantaggi della dissoluzione dell'Unione (tutte le repubbliche, perfino quella russa o almeno i suoi dirigenti, asserirono che le altre si stavano approfittando delle proprie risorse, che fossero agricole o minerarie, industriali o dei servizi, e che la separazione avrebbe provocato il superamento della crisi e l'inizio di una nuova prosperità) e l'ambizione politica di molti dirigenti, nuovi o vecchi, verteva sulla creazione di nuovi centri di potere, di nuove repubbliche.

Inoltre, nessuno poteva organizzare la resistenza, perché i principali dirigenti dello Stato stavano capeggiando l'operazione di smantellamento (in modo attivo come Yeltsin, o in modo passivo come Gorbachev) e il partito comunista era stato bandito e le sue organizzazioni smantellate. Il PCUS si era fuso nel corso degli anni con la struttura dello Stato, e questa situazione gli dava forza, ma anche debolezza: quando fu vietato, i milioni di militanti rimasero orfani, senza iniziativa, e molti di essi rimasero in attesa, impotenti di fronte ai rapidi cambiamenti.

Nel passato, questi dirigenti opportunisti (come Yeltsin, Aliev, Nazarbayev, presidente del Kazakistan dalla sparizione dell'URSS, la cui dittatura ha appena proibito l'attività del nuovo Partito Comunista Kazako) dovevano agire nell’ambito del partito unico, e di alcune leggi e di una costituzione che li obbligarono a sviluppare una politica favorevole agli interessi popolari.

Il collasso dell'Unione mostrò il suo vero carattere, trasformandosi nel saccheggio della proprietà pubblica e configurando regimi repressivi, dittatoriali e populisti, che ricevettero l'immediato appoggio dei paesi capitalisti occidentali. Con una sinistra ironia, i dirigenti che furono protagonisti del più grande furto della storia furono presentati dalla stampa russa e da quella occidentale come "progressisti" e "innovatori", mentre chi cercò di salvare l'URSS e di mantenere le conquiste sociali della popolazione furono ostracizzati come "conservatori" e "immobilisti".

Questi progressisti si sarebbero poi lanciati verso una sfrenata predazione delle ricchezze pubbliche, rubando a piene mani, con i "liberatori" e i "progressisti" che avrebbero guidato la più grande truffa della storia e un massacro di dimensioni terrificanti, non solo per il bombardamento del Parlamento, ma anche per un'operazione di ingegneria sociale (la privatizzazione selvaggia) che ha causato la morte di milioni di persone.

Un aspetto secondario del tema di cui ci stiamo occupando, ma rilevante per le implicazioni nel futuro, è la questione di chi guadagnò dalla sparizione dell'URSS. Naturalmente, non fu la popolazione sovietica che, vent’anni dopo, ha ancora un tenore di vita inferiore a quello che aveva raggiunto sotto l'URSS. Tre esempi possono bastare: la Russia aveva centocinquanta milioni di abitanti, e ora ne ha appena centoquarantadue; la Lituania che contava nel 1991 tre milioni e settecentomila abitanti, ora raggiunge solo i due milioni e mezzo; l’Ucraina, che ne aveva cinquanta milioni, oggi arriva a quarantacinque. Oltre ai milioni di morti, la speranza di vita è diminuita in tutte le repubbliche. La sparizione dell'URSS fu una catastrofe per la popolazione che cadde in mani di delinquenti, di satrapi, di ladri, molti dei quali ora riconvertiti in "rispettabili imprenditori e politici". Gli Stati Uniti si affrettarono a cantare vittoria, e tutto sembrava indicarlo: il suo principale rivale ideologico e strategico aveva smesso di esistere. Ma, se Washington guadagnò sul momento, la sua disastrosa gestione di un mondo unipolare diede inizio alla propria crisi: la sua decadenza, anche se relativa, è un fatto e il ripiegamento militare in tutto il mondo si aggraverà, a dispetto dei voleri dei governanti.

Vent’anni dopo, l'Unione Sovietica è ancora presente nella memoria dei suoi cittadini, tanto tra i veterani come tra le nuove generazioni. Olga Onoiko, una giovane scrittrice di ventisei anni che ha guadagnato il prestigioso premio Debut, ha affermato alcuni mesi fa, con un'ingenuità che rivela anche la coscienza di una gran perdita: "L'Unione Sovietica appare nella mia mente come un paese grande e bello, un paese soleggiato e festante, il paese dei sogni della mia infanzia, con un chiaro cielo azzurro e bandiere rosse che sventolano." Da parte sua, Irina Antonova, una donna eccezionale di ottantanove anni, direttrice del celebre Museo Pushkin di Mosca, ha aggiunto: "L'epoca di Stalin fu un momento duro per la cultura e per il paese. Ma poi ho visto, tempo dopo, un gran paese che si è perso in modo involontario e non necessaria. [...] A volte mi dico che voglio solo andare all'altro mondo dopo aver visto di nuovo un germoglio di qualcosa di nuovo, qualcosa di realmente nuovo. Un Picasso che trasformi questa realtà dall'arte, dalla bellezza e dall'emozione umana. Ma la cultura di massa ha divorato tutto. Ha abbassato il nostro livello. Anche se passerà. È solo un periodo brutto. E lo supereremo.”

**********************************************

VENTI ANNI SENZA L'UNIONE SOVIETICA

Postato il Sabato, 21 gennaio @ 21:35:00 CST di supervice



DI HIGINIO POLO

El Viejo Topo



La sparizione dell'Unione Sovietica è una delle tre questioni chiave che spiegano la realtà del XXI secolo. Le altre due sono il rafforzamento della Cina e l'inizio della decadenza nordamericana. La dissoluzione dell'URSS si verificò nel clima di crisi e di scontri che si impadronirono della vita sovietica negli ultimi anni del governo di Gorbachev che, malgrado avesse capeggiato un improrogabile processo di rinnovamento, (all’inizio, reclamando il ritorno al leninismo) avviò una disastrosa gestione del governo e una rozza azione politica che aggravò la crisi e facilitò l'azione degli oppositori del sistema socialista.



Le dispute tra Yeltsin e Gorbachev, il premeditato e precipitoso smantellamento delle strutture sovietiche e dell'organizzazione del Partito Comunista furono accompagnate da rivendicazioni nazionaliste che iniziarono in Armenia e si estesero a macchia di olio nelle altre repubbliche dell'Unione, mentre si aggravava la crisi economica, i rifornimenti scarseggiavano e i legami economici tra le differenti parti dell'Unione incominciavano a deteriorarsi. I problemi che dovette affrontare Gorbachev erano molti, e la sua gestione li rese peggiori: l'aspirazione a una maggiore libertà dall'autoritarismo sovietico e un cocktail esplosivo di cattivi raccolti, di un’inflazione galoppante, del calo della produzione industriale, della mancanza di alimenti e medicine, della scarsità di materie prime, di una riforma monetaria introdotta dall'incompetente Valentin Pavlov nel gennaio del 1991, insieme alle ambizioni personali di molti dirigenti politici e agli sconquassi dell'economia socialista e dello stallo della nuova economia privata, aumentarono il malessere della popolazione.

Nel maggio del 1990 Yeltsin divenne presidente del parlamento (il Soviet supremo) della Federazione Russa, annunciando il proposito di dichiarare la sovranità della repubblica russa, contribuendo così all'aumento della tensione e delle pressioni scissioniste che già premevano sui dirigenti delle repubbliche baltiche.

Poco dopo, nel giugno del 1990, il congresso dei deputati approvò una "dichiarazione di sovranità" che proclamava la supremazia delle leggi russe su quelle sovietiche. Era un siluro indirizzato sulla rotta della grande nave sovietica. Sorprendentemente, la dichiarazione fu approvata da 907 deputati e solo 13 votarono contro. Il 16 giugno il parlamento russo, su proposta di Yeltsin, annullò la funzione dirigenziale del Partito Comunista. Egor Ligachov, uno dei dirigenti contrari a Yeltsin e alla deriva di Gorbachev, dichiarò che il processo intrapreso era molto pericoloso e che avrebbe portato al "crollo" dell'URSS. Furono parole profetiche. Yeltsin, una volta liquidata l'Unione, nel 1992 trasformò questa data in festa nazionale russa, mentre, giustamente, i comunisti oggi la considerano un "giorno nero" per il paese.

Le tensioni nazionaliste svolsero un ruolo importante nella distruzione dell'URSS; a volte, con oscure operazioni che la storiografia non ha analizzato ancora con rigore. Un esempio può essere sufficiente: il 13 gennaio del 1991 ci fu un massacro davanti al ripetitore televisivo di Vilnius, la capitale lituana. Tredici civili e un militare del KGB rimasero uccisi e la stampa internazionale etichettò l’accaduto come una "brutale repressione sovietica", come poi titolarono molti giornali.

Il presidente nordamericano George Bush criticò l'operato di Mosca, mentre la Francia e la Germania, come la NATO, espressero dure parole di condanna: il mondo fu inorridito dall’estrema violenza del governo sovietico che si stava scontrando col governo nazionalista lituano, che in quel momento controllava il Sajudis, diretto da Vytautas Landsbergis. Sette giorni dopo, il 20 gennaio, una nutrita manifestazione a Mosca chiese le dimissioni di Gorbachev, mentre Yeltsin li accusava di incitare l’odio nazionalista, accusa assolutamente falsa. Un'ondata di proteste contro Gorbachev e il PCUS, in solidarietà coi governi nazionalisti del Baltico, scosse molte città dell'Unione Sovietica.

Tuttavia, ora sappiamo che, ad esempio, Audrius Butkevičius, membro del Sajudis e responsabile della sicurezza nel governo nazionalista lituano, e poi ministro della Difesa, si è pavoneggiato davanti alla stampa per il suo ruolo nella preparazione di quegli avvenimenti che avevano l'obiettivo di screditare l'Esercito sovietico e il KGB: alla fine ha riconosciuto che già sapeva che ci sarebbero state delle vittime davanti al ripetitore della televisione, e ora sappiamo che i morti furono colpiti dai cecchini appostati sui tetti degli edifici visto che gli spari non avevano una traiettoria orizzontale, come sarebbe avvenuto nel caso di un attacco delle truppe sovietiche che erano di fronte all'ingresso del ripetitore.

Butkevičius ha riconosciuto anni dopo che alcuni membri del DPT (Dipartimento di Protezione del Territorio, l'embrione dell'esercito creato dal governo nazionalista) che si trovavano sulla torre della televisione, spararono alla folla. Non si cerca di elaborare una teoria della cospirazione per la caduta dell'URSS, ma ci furono provocazioni e i piani di destabilizzazione. E ci furono anche le tensioni nazionaliste, per cui queste provocazioni agirono su un terreno già fertile, eccitando la passione e lo scontro.

Nel marzo del 1991 ci fu il referendum sul mantenimento dell'URSS, in questo clima di tensioni nazionaliste. I governi di sei repubbliche si rifiutarono di organizzare la consultazione (le tre baltiche che avevano dichiarato già la propria indipendenza, anche se non era ancora effettiva, e l’Armena,la Georgia e la Moldavia) e ciò nonostante l'80 per cento degli elettori sovietici partecipò, e il 76,4% si espresse a favore della conservazione e il 21,4 votò contro, una quota che comprende le repubbliche dove non fu convocato il referendum.

Lo schiacciante risultato a favore del mantenimento dell'URSS fu ignorato dalle forze che lavoravano alla rottura, dai nazionalisti e dai "riformatori" che controllavano già buona parte delle strutture di potere, come le istituzioni russe. Yeltsin, da presidente del parlamento russo, sviluppò un doppio gioco: non si oppose pubblicamente al mantenimento dell'Unione, ma cospirò attivamente con altre repubbliche per distruggerla.

In realtà, una delle ragioni, se non la più importante, per la convocazione del referendum del marzo del 1991 fu il tentativo del governo centrale di Gorbachev di limitare la voracità dei circoli di potere di alcuni repubbliche e, soprattutto, di frenare la sconsiderata corsa di Yeltsin verso il rafforzamento del proprio potere, che aveva bisogno della distruzione del potere centrale rappresentato da Gorbachev e dal governo sovietico. Senza dimenticare che, nel clima di confusione e scontento, la demagogia di Yeltsin conquistò molti seguaci.

Così, prima del tentativo di colpo di stato dell'estate del 1991, Yeltsin riconobbe a luglio l'indipendenza della Lituania, con una palese provocazione rivolta al governo sovietico che vide Gorbachev incapace di rispondere. I dirigenti delle repubbliche vollero consolidare il proprio potere senza dover rendere conto al centro federale, e per questo avevano bisogno della rottura dell'Unione Sovietica.

Una parte dei sostenitori del mantenimento dell'URSS facilitò con la propria goffaggine i progressi della coalizione segreta tra nazionalisti e "riformatori" liberali che stavano anche ricevendo il sostegno da parte di quei settori dell’economia privata che iniziarono a prosperare sotto Gorbachev, e perfino dal mondo della delinquenza che subodorava l’eventualità di prolifici commerci, per non parlare dei dirigenti del PCUS, come Alexander Yakovlev, che lavoravano attivamente per distruggere il partito.

Alla vigilia del giorno fissato per la firma del nuovo trattato dell'Unione, i golpisti fecero la comparsa con un Comitato statale per la situazione di emergenza nell'URSS. Il comitato contava sul vicepresidente Guennadi Yanaev, il primo ministro Pavlov, il ministro della Difesa Yazov, il presidente del KGB Kriuchkov, il ministro dell'Interno Boris Pugo, e su altri dirigenti, come Baklanov e Tiziakov. Il fallimento del golpe dell’agosto 1991, favorito da settori del PCUS contrari alla politica di Gorbachev, servì da volano per la controrivoluzione e incoraggiò le forze che propugnavano, ancora senza esprimerlo pubblicamente, la dissoluzione dell'URSS.

L'improvvisazione dei golpisti, malgrado potessero contare sul responsabile del KGB e sul ministro della Difesa, giunse addirittura ad annunciare il golpe prima ancora di muovere le truppe che avrebbero dovuto appoggiarli: non chiusero neppure gli aeroporti, non requisirono i mezzi di comunicazione, non fermarono Yeltsin e gli altri dirigenti riformisti, e la stampa internazionale poté quindi muoversi a suo piacimento.

I servizi segreti nordamericani confermarono l'incredibile improvvisazione del colpo di stato e l'assenza di importanti movimenti di truppe che avrebbero potuto sostenerlo. In realtà, la goffaggine marchiana dei golpisti andò a favore favorevole dei settori anticomunisti che posero fine all'URSS: anche se asseriscono l’opposto, la loro azione, come quella di Gorbachev, facilitò la strada ai sostenitori della restaurazione capitalista.

Dopo il fallimento del golpe, Yeltsin accelero i passi: il 24 agosto riconobbe l'indipendenza dell'Estonia e della Lettonia. E non fu solo Yeltsin a svolgere le prime fasi della proibizione del comunismo, anche Gorbachev fu incapace di opporsi alle pressioni della destra. Il 24 agosto del 1991, Gorbachev annunciò le sue dimissioni da segretario generale del PCUS, la dissoluzione del comitato centrale del partito e il divieto delle attività delle cellule comuniste nell'esercito, nel KGB, nel ministero dell'Interno, così come la confisca di tutte le sue proprietà.

Il PCUS rimase senza organizzazione e risorse. Non ci furono limiti alla rivincita anticomunista. Yeltsin proibì la pubblicazione di tutti i giornali e pubblicazioni comuniste. La debolezza di Gorbachev era già evidente, al punto che Yeltsin, presidente della repubblica russa, fu capace di imporre ministri di sua fiducia al proprio presidente sovietico alla Difesa e all’Interno, le posizioni chiave nella critica situazione di quel momento.

Yeltsin aveva bandito il PCUS in Russia e pignorato i suoi archivi (che, di fatto, erano le centrali del partito comunista) e altre repubbliche lo imitarono (Moldavia, Estonia, Lettonia e Lituania si affrettarono a proibire il partito comunista e chiedere agli Stati Uniti un appoggio per la loro indipendenza), mentre il sindaco "riformista" di Mosca pignorò e pose i sigilli agli edifici comunisti nella capitale. Da parte sua, Kravchuk annunciò il 24 agosto l’abbandono dal proprio incarico nel PCUS e nel Partito Comunista Ucraino. Yeltsin, che contava su un importante sostegno sociale, si astenne accuratamente dal rivelare il suo proposito di restaurare il capitalismo.

La sfrenata corsa verso il disastro proseguì nei mesi finali del 1991. Il referendum celebrato in Ucraina il 1° dicembre del 1991 poté contare sul controllo dell'apparato di Kravchuk, che fino a pochi mesi prima era il segretario comunista della repubblica riconvertitosi in nazionalista e guida dell'indipendenza ucraina.

Dopo i risultati, nel giorno successivo Kravchuk annunciò il suo veto per firmare il Trattato dell'Unione col resto delle repubbliche sovietiche. Kravchuk fu il prototipo del perfetto opportunista, pronto ad adottare qualunque ideologia per conservare la sua posizione: nell’agosto del 1991, nel tentativo di golpe contro Gorbachev, non chiarì bene la propria posizione, e non appoggiò né Yeltsin né Gorbachev, ma dopo il fallimento adottò una posizione nazionalista, abbandonò il partito comunista e si iniziò a reclamare l'indipendenza dell’Ucraina. Era un professionista del potere che intuì gli avvenimenti, pur essendo stato eletto presidente del parlamento ucraino nel 1990 dai deputati comunisti, dopo il fallimento del colpo abbandonò il comunismo. A questo punto le cose precipitarono. Se alcuni mesi prima, il 17 marzo del 1991, la popolazione ucraina aveva appoggiato a maggioranza il mantenimento dell'URSS (l’83 per cento votò a favore e solo il 16 per cento contro), la massiccia campagna del potere controllato da Kravchuk riuscì in un miracolo e, otto mesi dopo, la popolazione ucraina appoggiò la dichiarazione d’indipendenza del parlamento al 90 per cento, con una partecipazione dell’84 per cento.

Yeltsin annunciò, a pretesto, che se l’Ucraina non avesse firmato il nuovo trattato dell'Unione, non lo avrebbe fatto neppure la Russia: fu l'esplosione senza controllo dell'URSS. Alle spalle ci fu un intenso lavoro occidentale: due giorni dopo il referendum ucraino del 1° dicembre, Kravchuk parlò con Bush del riconoscimento dell'indipendenza: anche se Washington mantenne una certa cautela ufficiale per non intorbidire le relazioni con Mosca, la sua diplomazia e i servizi segreti lavorarono con forza appoggiando le forze scissioniste.

Anche Ungheria e Polonia, già diventati paesi satellite di Washington, riconobbero l’Ucraina. Yeltsin fece il suo, già lanciato nella distruzione dell'URSS. Subito dopo, fu avviato il piano per dissolvere l'Unione Sovietica, in un'operazione capeggiata da Yeltsin, Kravchuk e dal bielorusso Shushkevich l’8 dicembre del 1991 che si riunirono nella residenza di Viskuli, nella riserva naturale bielorussa di Belovezhskaya Puscha, dove proclamarono la dissoluzione dell'URSS, affrettandosi di informare George Bush per ottenere la sua approvazione.

Mancano molte informazioni per indagare su quell'operazione, anche se i protagonisti vivente, come Shushkevich, insistono nel dire che la dissoluzione dell'URSS non fu preparata in anticipo e che fu decisa all’improvviso. Il presidente bielorusso fu incaricato di comunicare l'accordo a un Gorbachev impotente e superato dagli avvenimenti - che già sapeva che si sarebbe tenuta la riunione a Viskuli - e gli rese noto, inoltre, che George Bush aveva acconsentito alla decisione. La rapida successione degli avvenimenti - la firma del 21 dicembre ad Almaty da parte di undici repubbliche sovietiche dei verbali per la creazione della CSI, le dimissioni di Gorbachev quattro giorni dopo e il ritiro simbolico della bandiera rossa sovietica dal Cremlino - segnarono il fine dell'Unione Sovietica.

In una corsa senza freni di richieste nazionaliste, molte forze politiche, che erano cresciute difendendo la perestroika, reclamarono la sovranità e l’indipendenza, asserendo che la singole repubbliche avrebbero iniziato un nuovo cammino verso la prosperità e il progresso, senza i limiti dovuti all'appartenenza all'Unione Sovietica.

Dal Caucaso alle repubbliche baltiche, passando per Ucraina, Bielorussia e Moldavia (con l'eccezione delle repubbliche centroasiatiche), la gran parte dei protagonisti di quel momento si affrettarono a rompere i legami sovietici per impadronirsi del potere nelle proprie repubbliche.

Un'alleanza tacita tra settori nazionalisti e liberali (che avrebbero dovuto illuminare la via verso la libertà e la prosperità), tra vecchi dissidenti, alti funzionari dello Stato e direttori di fabbriche e agglomerati industriali, opportunisti del PCUS, dirigenti comunisti riconvertiti a gran velocità per mantenere il proprio status (Yeltsin l'aveva fatto già, e gli si accodarono Yakovlev, Kravchuk, Shushkevich, Nazarbayev, Aliev, Shevardnadze, Karimov, eccetera), settori comunisti disorientati e ambiziosi capi militari disposti a tutto (perfino a tradire il proprio giuramento, per mantenersi nella graduatoria o per dirigere gli eserciti di ogni repubblica) confluirono nell’iniziativa di demolizione dell'URSS.

Con tutto il potere nelle sue mani e col partito comunista disarticolato e bandito, Yeltsin e i dirigenti delle repubbliche si lanciarono al recupero del bottino, alla privatizzazione selvaggia, al furto della proprietà pubblica.

Non ci furono freni. Dopo, per schiacciare la resistenza verso la deriva capitalista, sarebbe arrivato il colpo di Stato di Yeltsin nel 1993 che ha inaugurato la via militare al capitalismo, il sanguinante massacro per le strade di Mosca, il bombardamento del Parlamento (qualcosa di inaudito nell'Europa dopo il 1945, un fatto che fece inorridire il mondo, ma che fu appoggiato dai i governi di Washington, Parigi, Berlino e Londra) e, alla fine, la manipolazione e il furto delle elezioni del 1996 in Russia, che furono cinte dal candidato del Partito Comunista, Guennadi Ziuganov.

La distruzione dell'URSS fece cadere in povertà milioni di persone, distrusse l'industria sovietica, disarticolò in toto la complessa struttura scientifica del paese, distrusse la sanità e l'educazione pubbliche e portò all'esplosione di guerre civili in varie repubbliche, molte delle quali caddero nelle mani di satrapi e dittatori.

È lampante che ci fosse un'evidente insoddisfazione tra una parte importante della popolazione sovietica, insoddisfazione che affondava le radici negli anni della repressione stalinista e che si acutizzò per l'ossessivo controllo della popolazione, e, ancor di più, per la disorganizzazione progressiva e la mancanza di alimenti e forniture che caratterizzarono gli ultimi anni sotto Gorbachev, ma la dissoluzione peggiorò tutti questi aspetti. Questa parte di popolazione era disposta a credere persino le bugie che dilagavano in URSS, diffuse a volte dai mezzi di comunicazione occidentali.

Nelle analisi e nella storiografia che si è costruita in questi vent’anni, è stato un luogo comune l’interrogarsi sulle ragioni dell’assenza di risposta del paese sovietico di fronte alla dissoluzione dell'URSS. Vent’anni dopo, lo sguardo d’insieme è più chiaro: l'acutizzazione della crisi paralizzò buona parte delle forze del paese, le dispute nazionaliste centrarono il dibattito sui supposti vantaggi della dissoluzione dell'Unione (tutte le repubbliche, perfino quella russa o almeno i suoi dirigenti, asserirono che le altre si stavano approfittando delle proprie risorse, che fossero agricole o minerarie, industriali o dei servizi, e che la separazione avrebbe provocato il superamento della crisi e l'inizio di una nuova prosperità) e l'ambizione politica di molti dirigenti, nuovi o vecchi, verteva sulla creazione di nuovi centri di potere, di nuove repubbliche.

Inoltre, nessuno poteva organizzare la resistenza, perché i principali dirigenti dello Stato stavano capeggiando l'operazione di smantellamento (in modo attivo come Yeltsin, o in modo passivo come Gorbachev) e il partito comunista era stato bandito e le sue organizzazioni smantellate. Il PCUS si era fuso nel corso degli anni con la struttura dello Stato, e questa situazione gli dava forza, ma anche debolezza: quando fu vietato, i milioni di militanti rimasero orfani, senza iniziativa, e molti di essi rimasero in attesa, impotenti di fronte ai rapidi cambiamenti.

Nel passato, questi dirigenti opportunisti (come Yeltsin, Aliev, Nazarbayev, presidente del Kazakistan dalla sparizione dell'URSS, la cui dittatura ha appena proibito l'attività del nuovo Partito Comunista Kazako) dovevano agire nell’ambito del partito unico, e di alcune leggi e di una costituzione che li obbligarono a sviluppare una politica favorevole agli interessi popolari.

Il collasso dell'Unione mostrò il suo vero carattere, trasformandosi nel saccheggio della proprietà pubblica e configurando regimi repressivi, dittatoriali e populisti, che ricevettero l'immediato appoggio dei paesi capitalisti occidentali. Con una sinistra ironia, i dirigenti che furono protagonisti del più grande furto della storia furono presentati dalla stampa russa e da quella occidentale come "progressisti" e "innovatori", mentre chi cercò di salvare l'URSS e di mantenere le conquiste sociali della popolazione furono ostracizzati come "conservatori" e "immobilisti".

Questi progressisti si sarebbero poi lanciati verso una sfrenata predazione delle ricchezze pubbliche, rubando a piene mani, con i "liberatori" e i "progressisti" che avrebbero guidato la più grande truffa della storia e un massacro di dimensioni terrificanti, non solo per il bombardamento del Parlamento, ma anche per un'operazione di ingegneria sociale (la privatizzazione selvaggia) che ha causato la morte di milioni di persone.

Un aspetto secondario del tema di cui ci stiamo occupando, ma rilevante per le implicazioni nel futuro, è la questione di chi guadagnò dalla sparizione dell'URSS. Naturalmente, non fu la popolazione sovietica che, vent’anni dopo, ha ancora un tenore di vita inferiore a quello che aveva raggiunto sotto l'URSS. Tre esempi possono bastare: la Russia aveva centocinquanta milioni di abitanti, e ora ne ha appena centoquarantadue; la Lituania che contava nel 1991 tre milioni e settecentomila abitanti, ora raggiunge solo i due milioni e mezzo; l’Ucraina, che ne aveva cinquanta milioni, oggi arriva a quarantacinque. Oltre ai milioni di morti, la speranza di vita è diminuita in tutte le repubbliche. La sparizione dell'URSS fu una catastrofe per la popolazione che cadde in mani di delinquenti, di satrapi, di ladri, molti dei quali ora riconvertiti in "rispettabili imprenditori e politici". Gli Stati Uniti si affrettarono a cantare vittoria, e tutto sembrava indicarlo: il suo principale rivale ideologico e strategico aveva smesso di esistere. Ma, se Washington guadagnò sul momento, la sua disastrosa gestione di un mondo unipolare diede inizio alla propria crisi: la sua decadenza, anche se relativa, è un fatto e il ripiegamento militare in tutto il mondo si aggraverà, a dispetto dei voleri dei governanti.

Vent’anni dopo, l'Unione Sovietica è ancora presente nella memoria dei suoi cittadini, tanto tra i veterani come tra le nuove generazioni. Olga Onoiko, una giovane scrittrice di ventisei anni che ha guadagnato il prestigioso premio Debut, ha affermato alcuni mesi fa, con un'ingenuità che rivela anche la coscienza di una gran perdita: "L'Unione Sovietica appare nella mia mente come un paese grande e bello, un paese soleggiato e festante, il paese dei sogni della mia infanzia, con un chiaro cielo azzurro e bandiere rosse che sventolano." Da parte sua, Irina Antonova, una donna eccezionale di ottantanove anni, direttrice del celebre Museo Pushkin di Mosca, ha aggiunto: "L'epoca di Stalin fu un momento duro per la cultura e per il paese. Ma poi ho visto, tempo dopo, un gran paese che si è perso in modo involontario e non necessaria. [...] A volte mi dico che voglio solo andare all'altro mondo dopo aver visto di nuovo un germoglio di qualcosa di nuovo, qualcosa di realmente nuovo. Un Picasso che trasformi questa realtà dall'arte, dalla bellezza e dall'emozione umana. Ma la cultura di massa ha divorato tutto. Ha abbassato il nostro livello. Anche se passerà. È solo un periodo brutto. E lo supereremo.”

**********************************************

http://rebelion.org/noticia.php?id=142726