sabato 31 luglio 2010

Salvemini: mezzogiorno e federalismo

Fonte:
Riportato in "Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano
Salvemini" Lucchese, Salvatore, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita, 2004, pp.
131-136"

LA QUESTIONE MERIDIONALE E IL FEDERALISMO
di Gaetano Salvemini




Nel vagone, che ci conduceva verso Bari, c'eravamo mia madre, io avevo
quattordici anni - e, fra gli altri signori, un Piemontese figlio di un
capostazione, e un altro settentrionale.
- Postacci, - diceva il Piemontese; - creda pure che qui non ci si vive;
beato lei che ritorna nel Nord. Qui aria cattiva, acqua pessima, dialetto
incomprensibile che par turco, popolazione ignorante, superstiziosa,
barbara...
- Ma non siamo mica barbari, - interruppi io, - quando ci rubate i nostri
quattr...
Un atroce pizzicotto materno mi richiamò a più miti consigli.
lo ero proprio convinto che quel Piemontese, il quale ci chiamava «barbari»,
ci rubava i nostri quattrini. Perché avevo questa convinzione? chi me lo
aveva detto? quali elementi si erano a poco a poco accumulati nella mia
coscienza quattordicenne per dar corpo a una opinione di quel genere?
Non saprei dirlo con sicurezza.
Certo vi avevano contribuito le querimonie di un mio zio borbonico, il quale
ripeteva spesso e volentieri, ad ogni scadenza dei bimestre delle tasse, le
parole di Francesco Il: «I Piemontesi vi lasceranno solo gli occhi per
piangere»; vi avevano contribuito l'osservazione da me fatta sulla carta
geografica dell'Italia che le ferrovie erano più numerose al Nord che al
Sud, i racconti confusi e sbiaditi delle prepotenze che gli ufficiali
piemontesi avevano commesso nei nostri paesi nel'60.
Di queste nozioni indeterminate e incoerenti, forse di qualche altro
discorso, di cui non è rimasto più alcun ricordo nella mia mente, era
materiata la mia convinzione.
Se il pizzicotto materno non mi avesse interdetto la discussione, e quel
giovane Piemontese mi avesse domandato ragione della mia accusa, io non
avrei saputo dir nulla; ma sarei rimasto egualmente fermo nella convinzione
che i Settentrionali ci succhiavano il sangue, ci sfruttavano come bestie e
per giunta ci chiamavano barbari.
Questo stato d'animo, nel quale io mi trovavo a quattordici anni, era ed è
lo stato d'animo dei novantanove centesimi dei meridionali, di tutti i
partiti: un sordo rancore verso quelli del Nord, una coscienza indeterminata
e profonda di esser vittime della loro rapacità e prepotenza, una amara
avversione, acuita di tanto in tanto dai segni di disprezzo, che dal Nord ci
vengono, il desiderio ardente di farla finita una buona volta con questa
situazione subordinata e disprezzata. Per dimostrare fino a che punto le
idee antisettentrionali filtrano anche nelle menti, che dovrebbero essere
più refrattarie - nelle menti dei socialisti - mi basterà ricordare le
proteste astiose e sospettose, che vennero dai giornali e dai circoli del
Sud, quando un compagno - per fortuna meridionale - sostenne che il giornale
quotidiano del partito doveva pubblicarsi a Milano e non a Roma; le accuse
che i compagni meridionali non si stancano mai di muovere al partito, che,
secondo essi, si occupa solo del Nord e trascura il Sud; la ostilità, a
volte sorda, a volte palese, che c'è fino nel nostro Consiglio nazionale fra
i rappresentanti del Sud e quelli del Nord. E questi sentimenti -
intendiamoci -in buona parte non sono che troppo giustificati dal contegno
dei settentrionali, i quali non sanno che manifestare verso i compagni del
Sud a volte del disprezzo, a volte del compatimento, non meno umiliante del
disprezzo.
Perché è un fatto innegabile che, se i meridionali detestano i
settentrionali, questi ripagano di egual, ed anche migliore, moneta gli
altri. E' opinione diffusissima nel Nord che il Sud paghi molto meno tasse
del Nord e goda di tutti i favori del governo: è un parassita che dà poco e
prende molto.
Lo sfruttamento economico è accompagnato dalla corruzione politica, della
quale il Sud è la inesauribile sentina. Un corrispondente vuol dare al suo
giornale un'idea della corruzione elettorale del suo collegio? non mancherà
di scrivere, per dare un'idea sintetica della situazione:
«Pareva di essere nel Mezzogiorno». Un sottoprefetto o un delegato fanno i
prepotenti? gli si dice subito: «Caro lei, crede forse di essere nel
Mezzogiorno?»
Crispi è il brigante «meridionale» per eccellenza. In un articolo - del
resto ottimo - su La fine di un regno di Raffaele de Cesare, pubblicato non
è molto nell'«Educazione Politica» di Milano, ho raccolto i seguenti
fioretti meridionali: «Per chiunque ha un po' d'onore e un po' di sangue
nelle vene, è una gran calamità molte volte nascere Napoletano» (parole di
Carlo Filangieri, messe come epigrafe all'articolo); «uno scrittore di idee
moderate, un meridionale per giunta, ha saputo ritrovare in se stesso tanta
onestà scientifica»; «il racconto di questo viaggio [il viaggio trionfale di
Ferdinando Il nel '52] può dar la misura di quel che valgano le acclamazioni
del popolino meridionale», «quella povera plebe meridionale, ignorante e
superstiziosa, alla quale manca ogni educazione politica ed ogni senso pur
collettivo di dignità personale».
Per l'autore evidentemente uno scrittore moderato meridionale non può non
essere peggiore di uno scrittore moderato settentrionale; le due idee:
«plebe» e «meridionale» sono inseparabili; nel Nord di plebe non ce n'è; o
se ce n'è, è plebe per bene, è plebe... settentrionale.
Un Romagnolo, col quale sono stretto da calda amicizia, credette una volta
di farmi un gran complimento, dicendomi: «Pare impossibile che tu sia
meridionale» Ergisto Bezzi, ottimo cuore di repubblicano e di cittadino, che
fu aiutante di campo di Garibaldi nella spedizione di Sicilia e di Napoli,
mi diceva un anno fa:
«Il mio più gran rimorso è quello di aver accompagnato Garibaldi nel Sud; il
Sud doveva rimanere ancora sotto i Borboni».
Un fraterno augurio, che io ho sentito molto spesso fare dai settentrionali
ai meridionali, è che le acque del mare coprano tutta l'Italia da Roma in
giù.
I nordici disprezzano, come dicon essi, i sudici; e i sudici detestano con
tutta l'anima i nordici; ecco il prodotto di quarant'anni d'unità.
Questo non impedisce naturalmente che nelle relazioni, diciam così,
ufficiali fra le due sezioni del paese scorrano fiumi di fratellanza latte e
miele; più profondo anzi si scava l'abisso fra Nord e Sud, i discorsi degli
uomini politici e gli articoli dei giornaloni settentrionali traboccano di
saluti alle terre del sole e di proteste di solida - pei figli prediletti
della patria; e in compenso volano dal Sud verso il Nord applausi e auguri
ai fratelli iniziatori del nostro - ahi! - Risorgimento.
A che cosa servirebbe - Dio buono! - la parola se non a nascondere le idee?
Eppoi, non è forse legge fatale della nostra vita politica l'esser fuori
sempre della realtà, il sostituire alla constataci fatti la retorica,
l'andar innanzi alla cieca cullandoci al suono e prive di senso?
E' bensì vero che, da qualche anno a questa parte, la questione le è molto
spesso agitata nei giornali del Nord e del Sud. Ma con quali compassionevoli
metodi!
La stampa del Sud, mancipia delle camorre che dissanguano il paese, combatte
a base di menzogne e di calunnie, spesso assolutamente cretine, contro il
Nord.
Se non ci fossero tra i meridionalisti il Renda, il Ciccotti, il Colajanni,
i quali han discussa la questione con indipendenza di giudizio, ci sarebbe
da disperare sull'avvenire del nostro paese.
Ma anche quei meridionalisti onesti e sinceri, i quali pur riconoscono
l'inferiorità del loro paese, di fronte al disprezzo umiliante e irritante,
che traspira da ogni riga scritta nel Nord, finiscono spesso col perdere la
pazienza, e si sentono fervere il sangue nelle vene, e provano una gran
voglia di dar ragione ai rettili della stampa latifondista e camorrista.
Fra i giornalisti e gli uomini politici settentrionali, poi, non credo che
arrivino a due quelli che conoscono bene le condizioni del Mezzogiorno, e le
giudichino serenamente e senza pregiudizi. Specialmente la stampa
democratica dà a questo proposito uno spettacolo compassionevole: essa o fa,
come «Il Secolo», della retorica slombata sulla solidarietà fra Nord e Sud,
oppure si compiace di mettere in vista i mali del Sud, contrapponendoli alla
forza, alla moralità, al progresso del Nord.
Questo non è male; ma, quando avete fatto la descrizione più nera della
corruzione meridionale, a che scopo volete arrivare? che cosa vi proponete
di fare?
Il vostro disprezzo non è purtroppo che in gran parte giustificato, ma
disprezzare non basta; un rimedio, bene e male, bisogna trovarlo. Ora, chi
fra i settentrionali pensa ad alcun rimedio, all'infuori del solito augurio
che il mare ricopra le terre da Roma in giù?
E, mentre i partiti democratici non sanno affrontare risolutamente il
problema e sviscerarlo spregiudicatamente, quali che ne debbano essere le
conseguenze, i partiti reazionari hanno iniziato nel Mezzogiorno una lenta e
abilissima propaganda contro il Nord, dalla quale hanno molto da temere i
partiti democratici del Settentrione.
Ormai per il partito monarchico il Nord appare perduto; bisogna appoggiarsi
al Mezzogiorno. Ma le masse meridionali non potranno mai essere mobilitate
contro la democrazia del Nord sotto la bandiera conservatrice e monarchica:
della monarchia ad esse non importa nulla, e dall'essere conservatrici ci
corre e di molto.
Sotto questo punto di vista, il meglio, che i conservatori possano
desiderare dal Mezzogiorno, è che se ne stia tranquillo e non si muova; il
can che dorme, lascialo dormire.
Il regionalismo si presta invece molto bene allo scopo: bisogna approfittare
dell'ostilità, che i meridionali di tuffi i partiti sentono acuta verso i
settentrionali, bisogna far leva sugli interessi regionali, trasformando la
lotta fra democrazia e reazione in lotta fra Nord e Sud.
Distratti dal miraggio di scuotere l'oppressione dei settentrionali, gli
stessi democratici e socialisti del Sud - la cui coscienza politica è
purtroppo appena in via di formazione - dovranno unirsi ai conservatori
meridionali; i conservatori del Nord, sbattuti dalla montante marca
democratica, si aggrapperanno al Mezzogiorno come all'ultima ancora di
salvezza, sacrificando magari gli interessi del Nord pur di salvare la
propria esistenza.
Sarà una nuova unità a profitto del Sud, che comincerà a sfruttare il Nord.
Ma che importa?
il «porro unum necessarium» è che si salvino le istituzioni, cioè che si
salvi l'attuale impalcatura politica amministrativa, condizione
indispensabile al predominio delle consorterie conservatrici del Nord e del
Sud.
Ed ecco che i giornali monarchici del Sud, capitanati dal «Mattino» di
Scarfoglio, iniziano apertamente l'agitazione regionalista a base di odio
contro il Nord e specialmente contro Milano, la quale vuol diventare
capitale d'Italia; di calunnie contro tutti i principali democratici dei
Nord, le cui parole sulle condizioni del Mezzogiorno vengono riprodotte,
commentate, contorte, falsificate; e su tutta questa minuta propaganda di
bugie, di insinuazioni, di abili suggestioni, grandeggiano i due concetti,
che l'unità d'Italia deve essere difesa ad ogni costo e che la monarchia per
difendere l'unità deve appoggiarsi necessariamente sul Mezzogiorno.
Questa propaganda sfugge quasi completamente agli uomini politici e ai
giornalisti dei Nord, prima perché i giornali meridionali sono quasi
sconosciuti nel Settentrione, e poi perché la propaganda regionalista è
fatta in forma ipocrita: essa sfugge quasi sempre gli articoli di fondo
firmati, che richiamano l'attenzione, e si annida nei Giri pel mondo, nei
«mots de la fin», nei brevi «entrefilets» sperduti nelle seconde pagine,
nelle cronache locali, in quelle parti del giornale le quali si sottraggono
all'occhio frettoloso dei forestieri, ma che sono i migliori veicoli per far
penetrare inavvertitamente le idee nelle menti, già ben disposte, dei
lettori locali.
D'altra parte, quand'anche i settentrionali avessero agio di sorvegliare
attentamente l'opinione pubblica del Sud, essi non potrebbero influire in
alcun modo su di essa col mezzo ordinario della stampa, perché i giornali
del Nord sono quasi tutti sconosciuti nel Sud.
E i gazzettieri meridionali citano della stampa nordica solo ciò che può
servire a rinfocolare gli odi locali, ma non sarebbero mai tanto minchioni
da ammannire ai loro lettori delle citazioni contrarie.
In quest'ambiente, pieno di diffidenze e di recriminazioni, di ostilità e di
disprezzi, è uscito il recente libro di F. S. Nitti, intitolato Nord e Sud,
Prime linee di una inchiesta sulla ripartízíone territoriale delle entrate e
delle spese dello Stato in Italia (Torino 1900).
Questo libro dice molte verità, che è bene sieno conosciute specialmente nel
Nord; ma ne trascura molte altre, che meritano di esser conosciute non meno
delle prime.
Può fare molto bene ai partiti popolari, se questi non lo lasciano passare
inosservato e se sanno attingere in esso la loro linea di condotta di fronte
alla questione meridionale.
Contribuirà invece potentemente alla formazione definitiva di un movimento
antinordico nel Mezzogiorno, e preparerà un magnifico campo d'azione ai
partiti reazionari, se la democrazia del Nord si disinteresserà della
questione, lasciandone, come ha fatto finora, il monopolio agli Scarfogli
più o meno bacati della stampa del Mezzodí.
Ho detto che il libro del Nitti dice molte verità, che è bene sieno
conosciute specialmente nel Nord e, aggiungo, specialmente dai partiti
democratici del Nord. Esso infatti distrugge, in base a dati inconfutabili,
la leggenda che il Sud sfrutti il Nord, e dimostra che, nella famigerata
unità mazziniana-cavouriana, gl'interessi del Sud sono stati fin dai prirni
tempi e sono ogni giorno sacrificati agl'interessi del Nord.
[...]





_________________________________________________________________________________



«[ ... ] Ogni giorno che passa diventa sempre più vivo in me il dubbio, se
non sia il caso di solennizzare il cinquantennio [dell'Unità] lanciando nel
Mezzogiorno la formula della separazione politica. A che scopo continuare
con questa unità in cui siamo destinati a funzionare da colonia d'America
per le industrie del Nord, e a fornire collegi elettorali ai Chiaraviglio
del Nord; e in cui non possiamo attenderci nessun aiuto serio né dai partiti
conservatori, né dalla democrazia del Nord, nel nostro penoso lavoro di
resurrezione, anzi tutti lavorano a deprimerci più e a render più difficile
il nostro lavoro? Perché non facciamo due stati distinti? Una buona barriera
doganale al Tronto e al Carigliano. Voi si consumate le vostre cotonate sul
luogo. Noi vendiamo i nostri prodotti agricoli agli inglesi, e comperiamo i
loro prodotti industriali a metà prezzo. In cinquant'anni, abbandonati a
noi, diventiamo un altro popolo. E se non siamo capaci di governarci da noi,
ci daremo in colonia agli inglesi, i quali è sperabile ci amministrino
almeno come amministrano l'Egitto, e certo ci tratteranno meglio che non ci
abbiano trattato nei cinquant'anni passati i partiti conservatori, che non
si dispongano a trattarci nei prossimi cinquant'anni i cosiddetti
democratici». Cfr. Lettera di G. Salvemini ad A. Schiavi, Pisa 16 marzo
1911, in C. Salvemini, Carteggi, I. 1895-1911, cit., pp. 478-81.

Riportato in Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano
Salvemini Lucchese, Salvatore - Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita, 2004,
pag. 117

venerdì 30 luglio 2010

fini, effetti collaterali sul PD

Fini: effetti collaterali su PD

Nel paese orribile in cui la gente si uccide nelle carceri, in cui si può essere detenuti a vita nei manicomi criminali e lasciati legati ad un letto di contenzione per venti anni, in cui una bambina viene tolta alla madre perchè guadagna troppo poco ed un'altra bambina viene tolta ai genitori perchè abitavano una casa fatiscente, in cui altri bambini vengono lasciati digiuni da un Sindaco che, tuttavia, continua a percepire la sua lauta prebenda
e magari presto l'aumenterà come hanno fatto altri suoi colleghi politicanti di professione, in un paese in cui succedono queste e tante altre orribili cose, la rottura di Fini e del suo gruppo con Berlusconi
e la sua destra corrotta avida ed insaziabile, è un segnale di speranza, una piccola luce che si accende
nel buio di una deriva autoritaria fondata sull'odio sociale e sull'accaparramento delle risorse.
Possiamo essere certi che Fini è una persona onesta. Se non lo fosse, i mastini ed i molossi di Berlusconi che ha certamente fatto setacciare accuratamente la sua vita lo avrebbero già sbranato. E' importante, molto importante che alla base della rottura tra Fini e Berlusconi ci siano valori etici, sia stata posta una questione morale e si siano sollevati problemi fondamentali di difesa dello spirito della Costituzione a cominciare dai diritti civili.
Il campo di battaglia sul quale si è combattuta l'ultima battaglia dentro il centro-destra è la cosidetta legge-bavaglio, bloccata per una mobilitazione della opinione pubblica che ha inciso profondamente e che è riuscita anche ad attirare l'attenzione internazionale sull'Italia. Ma sappiamo bene che non è soltanto questa la causa della frattura di una collaborazione che ha coagulato una forte maggioranza di destra che ha cambiato radicalmente il paese. Il razzismo leghista era diventato troppo pesante ed arrogante negli ultimi due anni di governo. Si può dire che le due fondamentali leggi sulla sicurezza che hanno fatto scoppiare le carceri per i reati inventati a carico dei migranti siano state volute da Bossi e dai suoi. Anche il federalismo demaniale che sta impoverendo il patrimonio dello Stato e che arricchirà tanti speculatori privati è stato fatto sotto spinta leghista e porta il suo marchio.
Fini ed i suoi portano la grave responsabilità di avere condiviso finora tutte le scelte del centro destra anche le più infami contro i diritti umani e civili. Portano la responsabilità di un totale oblio della questione meridionale dove classi dirigenti fatte di politicanti ingordi si accaparrano e distruggono le poche risorse disponibili senza dare uno sbocco alla grave crisi sociale. La Sicilia di Termini Imerese,
la Sardegna dell'Isola dei Cassintegrati, la Calabria della oligarchia di Loiero e dei suoi successori, la Campania di Bassolino ed ora di Cosentino e Caldoro, sono diventati luoghi di grande sofferenza sociale e disperazione. La demolizione della scuola e della università aggiungono difficoltà e privano
di uno sbocco di occupazione i nostri professori. Quando sta accadendo alla Fiat e nel mondo del lavoro per l'eversione degli industriali che fanno carta straccia delle leggi e dei contratti incupisce di molto il mondo in cui viviamo. Su scuola, università, lavoro la voce di Fini non si è sentita come non si è sentita quella della "opposizione"- Eppure, la sua resistenza caparbia al berlusconismo produrrà effetti positivi e di sinistra. Blocca la calamitazione verso il grande buco nero della democrazia italiana del più grande partito dell'opposizione parlamentare.
Fini è uomo di destra che ha scelto di spendersi per una politica basata sulla civiltà e sul rispetto della Costituzione e delle regole della democrazia. Non dobbiamo aspettarci da lui più di quello che può dare ed è già tantissimo. Intanto mette un argine alla continua degenerazione autoritaria del potere
ed alla guerra tra le grandi forze della democrazia italiana: parlamento, magistratura, informazione.
Ma la sua coraggiosa e ferma iniziativa ha un effetto collaterale assai importante: blocca lo smottamento a destra del PD, blocca la ulteriore reticolazione del rapporto malsano bipartisan tra parti essenziali del PD ed il Governo Berlusconi.
L'Italia ha bisogno di una opposizione basata sui valori e sugli interessi di una parte cospicua della popolazione vessata dal potere e dalle scelte della maggioranza. Il PD era diventato assai somigliante
al Pdl specialmente nelle questioni essenziali di governo dell'economia e nella collocazione con il padronato. Niente distingueva più il PD dal Pdl sulle privatizzazioni a cominciare dalla questione della acqua e sulla gestione dei servizi comunali. Sui temi della pace e della guerra, il PD è da molto tempo schierato con l'atlantismo più ottuso e servile. Ha tirato la volata a Marchionne nell'attacco più grave che sia mai stato compiuto in Italia ai diritti giuridici e civili dei lavoratori.
Il Parlamento italiano è stato finora sbilanciato a destra in quasi tutti i suoi settori. Il Partito che Fini
creerà oggi introdurrà una nota dialettica positiva, bloccherà il deragliamento a destra, riaprirà il dibattito sulle questioni davvero importanti che il paese deve risolvere.
Il PD non è stato finora all'altezza dei problemi posti dalla secessione di Fini ed ha reagito da bottegaio che teme di non potere più fare i suoi buoni affari. Ora sarà costretto a riflettere su se stesso e sul suo ruolo in Parlamento e nel Paese. Dovrà decidere quale crisalide dovrà uscire dal bozzolo dell'incocervo che tiene in ostaggio dieci milioni di elettori di sinistra. Può il PD essere un Partito di destra quando Fini ne ha foggiato con le sue iniziative e lotte politiche uno moderno, civile,
bene accetto alla gente?
Pietro Ancona
http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/
www.spazioamico.it

giovedì 29 luglio 2010

La Polonia in Italia

La Polonia in Italia

Con una operazione truffaldina fatta alla luce del sole Marchionne si sottrae alle leggi ed ai contratti
vigenti in Italia. Va da un notaio e con l'aiuto di alcuni legulei del diritto costituisce una società Fiat che subentra alla Fiat. Lo stabilimento Giovanbattista Vico forse sarà chiamato diversamente e sarà giuridicamente appartenente ad una nuova entità ma tuttavia è una clonazione della Fiat, partorita dentro il corpo e con la stessa proprietà. Gli Agnelli succedono a se stessi. Si limitano a cambiare ragione sociale al solo scopo di truffare i lavoratori, sciogliersi da ogni obbligo, scegliersi la mano d'opera disponibile alle condizioni che Marchionne si degnerà di dettare e ridettare e che magari saranno ancora più dure ed opprimenti di quelle già firmate qualche giorno fa a Pomigliano e poi a Torino.
Al fine di disattendere agli obblighi di rispettare il contratto di lavoro a Marchionne è stato suggerito, magari dai "complici" di Sacconi, di non fare iscrivere la newco alla Unione degli Industriali di Napoli. Non so quali legulei abbiano suggerito i due escamotages (newco e non iscrizione) che fanno acqua da tutte le parti. In primo luogo è chiarissimo che si sta compiendo un falso. Tutti sappiamo che la newco non è affatto newco ma la Fiat travestita. L'operazione Alitalia non è evocabile dal momento che la cordata della Cai era costituita da persone fisiche e giuridiche diverse da quelle dell'Alitalia. In secondo luogo, secondo la generale interpretazione delle norme che regolano il passaggio delle società queste avvengono sempre rispettando i vincoli e le obbligazioni da parte della società subentrante. Non credo che il signor Marchionne che ha concepito o fatta propria questa spregevole e furbastra soluzione per evadere gli obblighi di un contratto di lavoro che non è tra i migliori d'Europa perchè concede ai metalmeccanici italiani il quaranta per cento in meno di quello tedesco e di quello francese possa azzerare tutto, ricominciare da capo, fare come se la storia cominciasse ora. Che farà delle anzianità maturate dai dipendenti? Che farà la nuova società delle obbligazioni contratte dalla Fiat Pomigliano?
Anche la cancellazione dalla Confindustria non gli servirà a molto. Il contratto è legittimato dalla sua
stessa applicazione. Non credo che ci sarà magistrato che potrà accettare per buono il nuovo contratto della Newco. Il principio erga omnes, nella sua logica lettura giuridica, esclude che una furbata possa danneggiare interessi vitali ed essenziali delle persone legate al diritto di avere un trattamento equo e rispondente ai principi della Costituzione.
Marchionne ritiene di potere trasferire le condizioni che detta in Polonia in Italia. Ritiene che con
due mosse da azzeccagarbugli possa fare i suoi comodi. Fare il manager in questo modo annullando le leggi ed i regolamenti che si ritengono di impedimente è davvero da volgare scippatore. L'industria automobilistica tedesca o francese che paga salari migliori di quelli italiani non ricorre ai trucchi che questo signore sfoggia in Italia. Purtroppo abbiamo un governo indecente moralmente e politicamente incapace di esercitare la sua autorità per impedire questo squallido traccheggio.
La Fiat si conferma per quella che è sempre stata nella storia d'Italia fin da quando un Agnelli riuscì a fare fuori i veri soci fondatori dello stabilimento ed impossessarsene. E' sempre vissuta appoggiandosi al potere politico ed anche militare quando è stato il caso per pagare bassissimi salari ed imporre condizioni da caserma. Allo Stato italiano ha succhiato risorse immense. I lavoratori sono talmente poveri da non potere resistere un mese senza salario ma gli Agnelli hanno una cassaforte munita e presidiata che li fa ricchissimi. Ora si vuole imporre una sovversione dell'ordine sociale cancellando i contratti e per fare questo con l'aiuto di qualcuno costruisce carte false.
Mi chiedo quale dignità abbiamo le istituzioni italiane a subire tutto questo, a farsi trattare da colonia
dal signor Marchionne. Anche un Governo di destra dovrebbe avere la dignità di reagire e di tutelare l'ordinamento dal sovversivismo di una industria che oltretutto non gioca a carte scoperte e chissà quali altre amare sorprese ci riserva. Il Parlamento che tace e gira la testa da un'altra parte ne esce assai male. I mille oligarchi che lo compongono sono soltanto dei privilegiati a cui non importa il decoro che l'operazione Marchionne spazza via. Si torna all'era delle caverne.
Pietro Ancona

Il Manifesto dei Comunisti, III capitolo, sec.parte

. Il socialismo conservatore o borghese
Una parte della borghesia desidera di portar rimedio agli inconvenienti sociali, per garantire l'esistenza della società borghese.

Rientrano in questa categoria economisti, filantropi, umanitari, miglioratori della situazione delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di società di temperanza e tutta una variopinta genìa di oscuri riformatori. E in interi sistemi è stato elaborato questo socialismo borghese.

Come esempio citeremo la Philosophie de la misère del Proudhon.

I borghesi socialisti vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne derivano. Vogliono la società attuale sottrazion fatta degli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza proletariato. La borghesia si raffigura naturalmente il mondo ov'essa domina come il migliore dei mondi. Il socialismo borghese elabora questa consolante idea in un semi-sistema o anche in un sistema intero. Quando invita il proletariato a mettere in atto i suoi sistemi per entrare nella nuova Gerusalemme, il socialismo borghese non fa in sostanza che pretendere dal proletariato che esso rimanga fermo nella società attuale, ma rinunci alle odiose idee che di essa s'è fatto.

Una seconda forma di socialismo meno sistematica e più pratica cercava di far passare alla classe operaia la voglia di qualsiasi movimento rivoluzionario, argomentando che le potrebbe essere utile non l'uno o l'altro cambiamento politico, ma soltanto un cambiamento delle condizioni materiali della esistenza, cioè dei rapporti economici. Ma questo socialismo non intende affatto, con il termine di cambiamento delle condizioni materiali dell'esistenza, l'abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo in via rivoluzionaria, ma miglioramenti amministrativi svolgentisi sul terreno di quei rapporti di produzione, che dunque non cambiano nulla al rapporto fra capitale e lavoro salariato, ma che, nel migliore dei casi, diminuiscono le spese che la borghesia deve sostenere per il suo dominio e semplificano il suo bilancio statale.

Il socialismo borghese giunge alla sua espressione adeguata solo quando diventa semplice figura retorica.

Libero commercio! nell'interesse della classe operaia; dazi protettivi! nell'interesse della classe operaia; carcere cellulare! nell'interesse della classe operaia. Questa è l'ultima parola, l'unica detta seriamente, del socialismo borghese.

Il loro socialismo consiste appunto nell'affermazione che i borghesi sono borghesi -nell'interesse della classe operaia




3. Il socialismo e comunismo critico-utopistico
Qui non parleremo della letteratura che ha espresso le rivendicazioni del proletariato in tutte le grandi rivoluzioni moderne (scritti di Babeuf e così via).

I primi tentativi del proletariato di far valere direttamente il suo proprio interesse di classe in un'età di generale effervescenza, nel periodo del rovesciamento della società feudale, non potevano non fallire per la forma poco sviluppata del proletariato stesso, come anche per la mancanza delle condizioni materiali della sua emancipazione, che sono appunto solo il prodotto dell'età borghese. La letteratura rivoluzionaria che ha accompagnato quei primi movimenti del proletariato è per forza reazionaria, quanto al contenuto; insegna un ascetismo generale e un rozzo egualitarismo.

I sistemi propriamente socialisti e comunisti, i sistemi di Saint-Simon, di Fourier, di Owen, ecc., emergono nel primo periodo, non sviluppato, della lotta fra proletariato e borghesia, che abbiamo esposto sopra (vedi: Borghesia e proletariato).

Certo, gli inventori di quei sistemi vedono l'antagonismo delle classi e anche l'efficacia degli elementi dissolventi nel seno della stessa società dominante. Ma non vedono nessuna attività storica autonoma dalla parte del proletariato, non vedono nessun movimento politico proprio e particolare del proletariato.

Poiché lo sviluppo dell'antagonismo fra le classi va di pari passo con lo sviluppo dell'industria, essi non trovano neppure le condizioni materiali per l'emancipazione del proletariato, e vanno in cerca d'una scienza sociale, di leggi sociali, per creare queste condizioni.

Alla attività sociale deve subentrare la loro attività inventiva personale, alle condizioni storiche dell'emancipazione del proletariato, devono subentrare condizioni immaginarie, e alla organizzazione del proletariato in classe con un processo graduale deve subentrare una organizzazione della società da essi escogitata a bella posta. La storia universale futura si dissolve per essi nella propaganda e nell'esecuzione pratica dei loro progetti di società.

E` vero ch'essi sono coscienti di sostenere nei loro progetti sopratutto gli interessi della classe operaia, come della classe che più soffre. Il proletariato esiste per essi soltanto da questo punto di vista della classe che più soffre.

Ma è inerente tanto alla forma non evoluta della lotta di classe quanto alla loro propria situazione, ch'essi credano d'essere di gran lunga superiori a quell'antagonismo di classe. Vogliono migliorare la situazione di tutti i membri della società, anche dei meglio situati. Quindi fanno continuamente appello alla società intera, senza distinzione, anzi, di preferenza alla classe dominante. Giacché basta soltanto comprendere il loro sistema per riconoscerlo come il miglior progetto possibile della miglior società possibile.

Quindi essi respingono qualsiasi azione politica, e specialmente ogni azione rivoluzionaria; vogliono raggiungere la loro meta per vie pacifiche e tentano di aprir la strada al nuovo vangelo sociale con piccoli esperimenti che naturalmente falliscono, con la potenza dell'esempio.

Tale descrizione fantastica della società futura corrisponde al primo impulso presago del proletariato verso una trasformazione generale della società, in un periodo nel quale il proletariato è ancora pochissimo sviluppato, e quindi intende anch'esso ancora fantasticamente la propria posizione.

Ma gli scritti socialisti e comunisti consistono anche di elementi di critica. Essi attaccano tutte le fondamenta della società esistente. Hanno quindi fornito materiale preziosissimo per illuminare gli operai. Le loro proposizioni positive sulla società futura, per esempio l'abolizione del contrasto fra città e campagna, della famiglia, del guadagno privato, del lavoro salariato, l'annuncio dell'armonia sociale, la trasformazione dello Stato in una semplice amministrazione della produzione, tutte queste proposizioni esprimono semplicemente la scomparsa dell'antagonismo fra le classi che allora comincia appena a svilupparsi, e ch'essi conoscono soltanto nella sua prima informe indeterminatezza. Perciò queste stesse proposizioni hanno ancora un senso puramente utopistico.

L'importanza del socialismo e comunismo critico utopistico sta in rapporto inverso allo sviluppo storico. Nella stessa misura che si sviluppa e prende forma la lotta fra le classi, perde ogni valore pratico, ogni giustificazione teorica quell'immaginario sollevarsi al di sopra di essa, quella lotta immaginaria contro di essa. Quindi, anche se gli autori di quei sistemi erano rivoluzionari per molti aspetti, i loro scolari costituiscono ogni volta sette reazionarie. Tengon ferme contro il progressivo sviluppo storico del proletariato, le vecchie opinioni dei maestri. Quindi cercano conseguentemente di smussare di nuovo la lotta di classe, e di conciliare gli antagonismi. Continuano sempre a sognare la realizzazione sperimentale delle loro utopie sociali, l'istituzione di singoli falansteri, la fondazione di colonie in patria, la creazione di una piccola Icaria, -edizione in dodicesimo della nuova Gerusalemme- e per la costruzione di tutti quei castelli in Ispagna debbono far appello alla filantropia dei cuori e delle borse borghesi. A poco per volta essi cadono nella sopra descritta categoria dei socialisti reazionari o conservatori, e ormai si distinguono da questo solo per una pedanteria più sistematica, e per la fede fanatica e superstiziosa nell'efficacia miracolosa della loro scienza sociale.

Quindi si oppongono aspramente ad ogni movimento politico degli operai, poiché esso non potrebbe procedere che da cieca mancanza di fede nel nuovo vangelo.

Gli owenisti in Inghilterra reagiscono contro i cartisti, i fourieristi in Francia reagiscono contro i riformisti.




--------------------------------------------------------------------------------

mercoledì 28 luglio 2010

serbia-zastava: bombardamenti ed affari

----- Original Message -----


Serbia-Zastava: bombardamenti ed affari

L'Italia ha partecipato attivamente ai bombardamenti della Serbia del 1999. Belgrado fu sottoposta per settantasette giorni a spaventose incursioni aeree della Nato che non si limitavano a distruggere ma hanno anche avvelenato l'ambiente e le persone. Non sappiamo quante centinaia di migliaia di persone siano morte dopo la guerra. Se esiste una statistica viene tenuta celata per via di interessi a non dispiacere l'UE e la Nato. La grande fabbrica Zastava fondata nel 1853 marchio di una affermata automobile fu devastata. I suoi 36 mila operai persero il lavoro. Il governo D'Alema fu molto attivo e scrupoloso nella realizzazione dei piani di bombardamento. L'apparato industriale della Serbia, eredità del glorioso comunismo di Tito che dava lavoro e sicurezza a milioni di lavoratori, fu annientato. Il Danubio fu inquinato da una onda di cianuro che ne distrusse ogni forma di vita. I lavoratori addetti allo sgombero delle macerie ed alla ricostruzione della Zastavo sono morti quasi tutti di cancro. Molti conducono una desolata esistenza di malati terminali. Ma, nonostante abbiano usato terribili armi cancerogene all'uranio ed al fosforo ed ancora continuano ad usarle, l'Italia e l'Occidente si ritengono una civiltà superiore che diffonde nel mondo valori di libertà e di democrazia.
Ora la Fiat di Marchionne, per un accordo-capestro estorto due anni orsono al governo della Serbia che ha un disperato bisogno di uscire dall'isolamento e dalla discriminazione della Nato e dell'Unione Europea (che hanno riconosciuto il Kossovo come Stato indipendente e sovrano strappandolo dalla viva carne della nazione), ristrutturerà e rilancerà la fabbrica occupando una modesta parte dei lavoratori anteguerra. Riceverà in dono 150 ettari di terreno, diecimila euro per ogni occupato, esenzioni ed agevolazioni fiscali, tutte le infrastrutture necessarie e financo una zona franca per la Fiat per l'importazione di prodotti semilavorati. Un ben di Dio, una vera e propria cornucopia di beneficts, ai quali vanno aggiunti i finanziamenti della Banca Europea degli investimenti.
Gli operai avranno una paga massima di quattrocento euro mensili che sono pochi anche per la povera Serbia. Inoltre gli operai saranno praticamente militarizzati, dovranno sottostare a condizioni di lavoro disumane riducendosi a vero e proprio macchinario vivente, non dovranno fiatare e sottoposti ad un regime di spionaggio poliziesco del quale la Fiat ha una antica e ricca esperienza risalente al ventennio fascista e proseguita con il professore Valletta inventore dei famigerati reparti confino e delle schedature dei lavoratori e delle loro famiglie.
La Serbia stringe i denti ed accetta anche le condizioni più dure. Si è già prestata a qualsiasi richiesta avanzata dalle multinazionali che si sono insediate nel suo territorio. Temo che non starà molto attenta ai problemi di inquinamento delle acque e del territorio. Forse noi siciliani siamo stati attenti allo impatto ecologico creati dalla Montedison e dall'Eni a Gela e Siracusa? Abbiamo cominciato a parlarne soltanto dopo l'evacuazione di un intero paese e la nascita dei bambini deformi. Pur di avere un lavoro ci si è sottoposti ad ogni pericolo. Lo stesso accadrà alla reindustrializzazione serba ad opera di capitalisti stranieri e multinazionali.
I lavoratori serbi che ne hanno ancora memoria rimpiangeranno il socialismo della Repubblica presieduta da Tito garante di mezzo secolo di pace e di prosperità. Ora sono ridotti ad accettare qualsiasi condizione senza quella libertà predicata dall'Occidente. Se si azzardano a parlare male dei dirigenti della Fiat verranno immediatamente espulsi dalla fabbrica e condannati alla disoccupazione con le loro famiglie.
La Serbia dovrebbe essere risarcita a miliardi di euro per i danni subiti dai bombardamenti Nato. Ma
la regola dei rapporti di forza vuole che invece pagherà per tornare ad avere industrie e lavoro.
La classe operaia italiana non deve accettare l'indicazione strategica di Marchionne e della Confindustria: tutti uniti come italiani contro gli altri. E' menzognera l'affermazione secondo la quale nella globalizzazione gli interessi nazionali vanno difesi da un fronte unico fatto di governo, industriali e sindacati. Se questa affermazione fosse vera il comportamento della Fiat dovrebbe privilegiare in primo luogo gli interessi del territorio nazionale. Non è così. La Fiat si serve del basso costo di lavoro che può avere all'estero per ricattare ed abbassare la condizione di vita dei suoi dipendenti in Italia. Se proprio non può fare a meno di trasferirsi.
Per questo ritengo importante la internazionalizzazione della lotta dei lavoratori sulla base di obiettivi comuni da sostenere in Europa: Salario Minimo Garantito, Contratto Unico Europeo, settimana lavorativa di 35 ore, umanizzazione della catena di montaggio, bando dei sistemi WMC e simili.....Revisione radicale dei parametri iperliberisti di mastricth e di Lisbona..
Nello scontro nazionalistico o campanilistico i lavoratori saranno sempre perdenti. Ci sarà sempre un posto in cui la manodopera costerà di meno. Il lavoratore italiano deve essere fratello di quello polacco o serbo.
Oggi l'Europa dell'Est è diventata il laboratorio della destra economica e sociale per l'abbassamento del tenore di vita delle persone e l'abbrutimento del lavoro. Ma la stessa Europa è stata testimone della grande civiltà del socialismo che portava i lavoratori in palma di mano. La fabbrica comunista era a misura di uomo. I diritti nelle fabbrica e nella società venivano rispettati ed ognuno aveva la sicurezza
di vivere senza l'angoscia di perdere tutto con la disoccupazione e di dovere espatriare.
Il socialismo, attraverso i Marchionne e la loro folle voglia di ridurre le persone a schiavi tremebondi,
ritornerà di grande attualità. Tornerà ad essere la speranza dell'umanità spaventata dalla barbarie del liberismo.
Pietro Ancona
già consigliere CNEL

http://cronologia.leonardo.it/la72b.htm
http://www.pasti.org/pona.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Zastava
http://www.francarame.it/node/534

lunedì 26 luglio 2010

FIAT; torino, riunione dei "complici" con palo

FIAT. Torino, riunione dei "complici" con palo.
Si apre una settimana cruciale per lo sviluppo del colpo di stato sociale che la Confindustria ed in particolare la Fiat stanno realizzando in Italia con l'aiuto di Sindacati fedigrafi e politici ruffiani.
Si riunisce a Torino e non a Roma, al Ministero del Lavoro, una riunione convocata da Sacconi con Marchionne, Cisl ed Uil, Cgil, il sindaco di Torino ed il Presidente della regione Cota. Si dovrebbe scongiurare il trasferimento della produzione da Torino alla Serbia. La povera Serbia accetterebbe di farsi spolpare fino all'osso accollandosi la costruzione di grande parte dello stabilimento ed assicurando condizioni fiscali di coloniale favore ivi compresa una zona franca fiat. Inoltre consegnerebbe al Gran Visir degli Agnelli gli operai ben selezionati a prezzi stracciati, ultradisciplinati, disponibili a qualsiasi sacrificio pur di portare a casa un pezzo di pane: quattrocento euro al mese. .Insomma più o meno alle condizioni degli schiavi che costruirono le Piramidi. Sono gli stessi operai che avevano dato vita alla Jugoslavia del Presidente Tito, una grande civiltà del lavoro e del socialismo distrutta dai bombardamenti Nato.Peccato che la Serbia non li possa militarizzare come fece Mussolini durante le guerre africane. Allora gli operai se "indisciplinati" su segnalazione della Fiat potevano finire difronte al tribunale Militare di Guerra e rischiavano anche la condanna a morte oppure a lunghissimi e durissimi periodi di detenzione.
Argomento della riunione con i "complici" (Sacconi così definisce il rapporto confindustria-governo-sindacati) alla presenza confermata del Palo (la CGIL che non se la sente di aderire al club dei complici ufficialmente ma è costretta a colpi di sperone dal PD, da Chiamparino, da Letta, da Veltroni etc..a stare alle condizioni che pone la Fiat) è la cosidetta "affidabilità" che dovrebbe essere garantita, si dice, dai sindacati ma si intende dalla Fiom. Dei sindacati di base, che pure hanno una loro significativa eroica presenza tra i lavoratori, non si parla nemmeno. Basta cancellarli con un trattino di penna ed ogni tanto decimarli con qualche licenziamento ben mirato! I giornali e le Tv sanno che debbono ignorarli oppure, quando proprio non se ne può fare a meno di parlarne definirli estremisti, pericolosi fondamentalisti, teste calde, antipatriottici.
Dopo la vicenda di Pomigliano seguita dai licenziamenti di rappresaglia quotati in borsa sono portato a credere che abbia davvero ragione Eugenio Scalfari a dubitare della consistenza dei programmi e delle prospettive reali della Fiat. Scalfari dice che la Fiat si è salvata aggrappandosi alla Chrysler e facendosi finanziare da Obama e dal Sindacato Uaw e che l'investimento in Serbia avviene a condizioni specialissime ad esborso quasi zero della Fiat. Insomma, osserva in controluce e senza concedere molto credito il radioso cammino di Marchionne che riesce a scippare il malloppo soltanto sfruttando lo stato di bisogno e la crisi altrui. In effetti, se si seguono i movimenti di Marchionne si ha l'impressione di trovarsi difronte ad un giocoliere, al napoletano con compare che fa il gioco delle tre carte e ti invita ad indovinare quella vincente: Qual'è la carta vincente della Fiat?
Il lugubre Bossi, unendosi ad una lamentazione di prefiche maledicenti la Fiom che metterebbe in pericolo l'occupazione, dice: "Senza lavoro non ci sono diritti". Per sottointendere: prendiamoci il lavoro ed ai diritti penseremo un'altra volta...
La riunione di Torino presieduta da un Ministro del Lavoro che sarebbe meglio chiamare degli Industriali si propone lo scopo di ottenere nuove e significative concessioni dai Sindacati e dalla pubblica amministrazione. I sindacati dovrebbero garantire la cancellazione de facto di diritti garantiti dal ccnl, dalle leggi e dalla Costituzione e fare anche da mazzieri del padrone come i sindacati americani mafiosi che piacciono tanto a Marchionne. Dovrebbero tenere l'ordine, incitare i lavoratori a fare fino in fondo il loro dovere di macchinari viventi, isolare le teste calde, segnalarle all'ufficio risorse, accettare il loro confino nei reparti più duri. E' cambiata qualcosa dalla Fiat di Valletta che confinava gli operai comunisti e della Cgil nei reparti dove si moriva prima come la verniciatura di una volta?
A Torino si farà un altro passo avanti, un'altra stazione di via crucis lungo la strada apertasi venti anni fa con l'abolizione della scala mobile e lastricata di diritti perduti fino ai "refusi" fatti in malafede da Sacconi con il consenso dei "complici". Venti milioni di italiani che vivono di lavoro dipendente sono sottoposti ad un attacco che non ha precedenti. L'obiettivo è la cancellazione della libertà e delle sue regole nei posti di lavoro. Un obiettivo al quale lavorano in molti delle maggioranza e della opposizione parlamentare. C'è più opposizione nella cultura giuridica e sociologica che tra partiti e sindacati che una volta erano dalla parte dei lavoratori.
Pietro Ancona
già consigliere CNEL
http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=206&artsuite=4

domenica 25 luglio 2010

Il Manifesto dei Comunisti. III Capitolo, prima parte

letteratura socialista e comunista
1. Il socialismo reazionario
a) Il socialismo feudale.
Data la sua posizione storica, l'aristocrazia francese e inglese era chiamata a scrivere libelli contro la moderna società borghese. Nella rivoluzione francese del luglio 1830, nel movimento inglese per la riforma elettorale, l'aristocrazia era soggiaciuta ancora una volta all'aborrito nuovo venuto. Non c'era più da pensare a una seria lotta politica. Le rimaneva soltanto la lotta letteraria. Ma anche nel campo della letteratura la vecchia fraseologia dell'età della restaurazione era ormai impossibile. Per destare qualche simpatia, l'aristocrazia era costretta a distogliere gli occhi, in apparenza, dai propri interessi e a formulare il suo atto d'accusa contro la borghesia solo nell'interesse della classe operaia sfruttata. Così essa preparava la soddisfazione di poter intonare invettive contro il nuovo signore, e di potergli mormorare nell'orecchio profezie più o meno gravide di sciagura.

A questo modo sorse il socialismo feudalistico, metà lamentazione, metà libello; metà riecheggiamento del passato, metà minaccia del futuro. A volte colpisce al cuore la borghesia con un giudizio amaro e spiritosamente sarcastico, ma ha sempre effetto comico per la sua totale incapacità di comprendere il corso della storia moderna.

Questi aristocratici hanno impugnato la proletaria bisaccia da mendicante, agitandola come bandiera per raggruppare dietro a sé il popolo. Ma tutte le volte che li ha seguiti, il popolo ha visto sulle loro parti posteriori i vecchi blasoni feudali e s'è sbandato con forti e irriverenti risate.

Una parte dei legittimisti francesi e la Giovine Inghilterra hanno offerto questo spettacolo.

Quando i feudali dimostrano che il loro sistema di sfruttamento era diverso dallo sfruttamento borghese, dimenticano soltanto che essi esercitavano lo sfruttamento in circostanze e condizioni totalmente differenti e che ora han fatto il loro tempo. Quando dimostrano che il proletariato moderno non è esistito al tempo del loro dominio, dimenticano soltanto che la borghesia moderna fu appunto un necessario rampollo del loro ordine sociale.

Del resto, essi celano tanto poco il carattere reazionario della loro critica, che la loro principale accusa contro la borghesia è proprio che sotto il suo regime si sviluppa una classe che farà saltare in aria tutto quanto il vecchio ordine sociale.

Rimproverano alla borghesia più il fatto che essa genera un proletariato rivoluzionario che non il fatto ch'essa produce un proletariato in genere.

Nella pratica della vita politica, prendono parte perciò a tutte le misure di forza contro la classe operaia, e nella vita ordinaria, ad onta di tutti i loro gonfi frasari, si adattano a raccogliere le mele d'oro, e a barattare fedeltà, amore, onore col traffico della lana di pecora, della barbabietola e dell'acquavite.

Come il prete si è sempre accompagnato al signore feudale, così il socialismo pretesco si accompagna a quello feudalistico.

Non c'è cosa più facile che dare una tinta socialistica all'ascetismo cristiano. Il cristianesimo non se l'è presa forse anch'esso con la proprietà privata, con il matrimonio, con lo Stato? Non ha predicato, in loro sostituzione, la beneficenza, la mendicità, il celibato e la mortificazione della carne, la vita claustrale e la Chiesa? Il socialismo sacro è soltanto l'acquasanta con la quale il prete benedice la rabbia degli aristocratici.


b) Il socialismo piccolo-borghese.
L'aristocrazia feudale non è l'unica classe che sia stata abbattuta dalla borghesia e le cui condizioni di esistenza siano deperite e si siano estinte nella società borghese moderna. La piccola borghesia medievale e l'ordine dei piccoli contadini furono i precursori della borghesia moderna. Questa classe continua ancora a vegetare accanto alla sorgente borghesia nei paesi meno sviluppati industrialmente e commercialmente.

Nei paesi dove s'è sviluppata la civiltà moderna, si è formata una nuova piccola borghesia, sospesa fra il proletariato e la borghesia, che torna sempre a formarsi da capo, in quanto è parte integrante della società borghese; ma i suoi membri vengono costantemente precipitati nel proletariato dalla concorrenza, anzi, con lo sviluppo della grande industria vedono addirittura avvicinarsi un momento nel quale scompariranno totalmente come parte indipendente della società moderna, e verranno sostituiti da sorveglianti e domestici nel commercio, nella manifattura, nell'agricoltura.

In paesi come la Francia, dove la classe dei contadini costituisce molto più della metà della popolazione, era naturale che alcuni scrittori i quali scendevano in campo per il proletariato contro la borghesia usassero la scala del piccolo borghese e del piccolo contadino per la loro critica del regime borghese e che prendessero partito per gli operai dal punto di vista della piccola borghesia. Così s'è formato il socialismo piccolo-borghese. Capo di questa letteratura, non solo per la Francia, ma anche per l'Inghilterra, è il Sismondi.

Questo socialismo ha anatomizzato con estrema perspicacia le contraddizioni insite nei rapporti moderni di produzione. Ha smascherato gli ipocriti eufemismi degli economisti. Ha dimostrato irrefutabilmente i deleteri effetti delle macchine e della divisione del lavoro, la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la sovraproduzione, le crisi, la rovina inevitabile dei piccoli borghesi e dei piccoli contadini, la miseria del proletariato, l'anarchia della produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale di sterminio fra le varie nazioni, la dissoluzione dei vecchi costumi, dei vecchi rapporti familiari, delle vecchie nazionalità.

Tuttavia, quanto al suo contenuto positivo, questo socialismo o vuole restaurare gli antichi mezzi di produzione e di traffico, e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, o vuole rinchiudere di nuovo, con la forza, entro i limiti degli antichi rapporti di proprietà i mezzi moderni di produzione e di traffico, che li han fatti saltare in aria, che non potevano non farli saltare per aria. In entrambi i casi esso è insieme reazionario e utopistico.

Corporazioni nella manifattura e economia patriarcale nelle campagne: ecco la sua ultima parola.

Nel suo ulteriore sviluppo questa tendenza è andata a finire in una vile depressione dopo l'ebbrezza.


c) Il socialismo tedesco ossia il vero socialismo.
La letteratura socialista e comunista francese, ch'è sorta sotto la pressione d'una borghesia dominante ed è l'espressione letteraria della lotta contro questo dominio, venne introdotta in Germania proprio mentre la borghesia stava cominciando la sua lotta contro l'assolutismo feudale.

Filosofi, semifilosofi e begli spiriti tedeschi s'impadronirono avidamente di quella letteratura, dimenticando solo una piccola cosa: che le condizioni d'esistenza francesi non erano immigrate in Germania insieme a quegli scritti che venivano dalla Francia. Nei confronti delle condizioni tedesche, la letteratura francese perdette ogni significato pratico immediato e assunse un aspetto puramente letterario. Non poteva non apparire un'oziosa speculazione sulla vera società, sulla realizzazione dell'essere umano. Allo stesso modo le rivendicazioni della prima rivoluzione francese avevano avuto per i filosofi tedeschi del secolo XVIII soltanto il senso di essere rivendicazioni della "ragion pratica" in generale, e le manifestazioni di volontà della borghesia francese rivoluzionaria avevano significato ai loro occhi di leggi di pura volontà, della volontà come deve essere, della volontà veramente umana.

Il lavoro dei letterati tedeschi consistette unicamente nel concordare le nuove idee francesi con la loro vecchia coscienza filosofica, o, anzi, nell'appropriarsi delle idee francesi dal loro punto di vista filosofico.

Questa appropriazione avvenne nella stessa maniera che si usa in genere per appropriarsi una lingua straniera: mediante la traduzione.

E` noto come i monaci ricoprissero di insipide storie di santi cattolici i manoscritti che contenevano le opere classiche dell'antichità pagana. Con la letteratura francese profana i letterati tedeschi usarono il procedimento inverso; scrissero le loro sciocchezze filosofiche sotto l'originale francese. Per esempio, sotto la critica francese dei rapporti patrimoniali essi scrissero "alienazione dell'essere umano", sotto la critica francese dello stato borghese scrissero "superamento del dominio dell'universale in astratto", e così via.

Battezzarono questa insinuazione del loro frasario filosofico negli svolgimenti francesi con i nomi di "filosofia dell'azione", "vero socialismo", "scienza tedesca del socialismo", "motivazione filosofica del socialismo" e così via.

Così la letteratura francese socialista e comunista fu letteralmente evirata. E poiché essa nelle mani dei tedeschi aveva smesso di esprimere la lotta d'una classe contro l'altra, il tedesco era consapevole d'aver superato l'unilateralità francese, d'essersi fatto rappresentante non di veri bisogni, ma anzi del bisogno della verità, non degli interessi del proletariato, ma anzi degli interessi dell'essere umano, dell'uomo in genere; dell'uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi neppure alla realtà, e appartiene soltanto al cielo nebuloso della fantasia filosofica.

Questo socialismo tedesco, che prendeva così solennemente sul serio le sue goffe esercitazioni scolastiche, e tanto ciarlatanescamente le strombazzava, perdette tuttavia, a poco a poco, la sua pedantesca innocenza.

La lotta della borghesia tedesca, specialmente di quella prussiana, contro i feudali e contro la monarchia assoluta, in una parola, il movimento liberale, divenne più serio.

Così al vero socialismo si offrì l'auspicata occasione di contrapporre le rivendicazioni socialiste al movimento politico, di lanciare i tradizionali anatemi contro il liberalismo, contro lo Stato rappresentativo, contro la concorrenza borghese, contro la libertà di stampa borghese, il diritto borghese, la libertà e l'eguaglianza borghesi; e di predicare alla massa popolare come essa non avesse niente da guadagnare, anzi tutto da perdere con quel movimento borghese. Il socialismo tedesco dimenticava in tempo che la critica francese della quale esso era l'insulso eco, presuppone la società borghese moderna con le corrispondenti condizioni materiali d'esistenza e l'adeguata costituzione politica: tutti presupposti che in Germania si trattava appena di conquistare.

Il vero socialismo servì ai governi assoluti tedeschi, col loro seguito di preti, di maestrucoli, di nobilucci rurali e di burocrati, come gradito spauracchio contro la borghesia che avanzava minacciosa.

Costituì il dolciastro complemento delle acri sferzate e delle pallottole di fucile con le quali quei governi rispondevano alle insurrezioni operaie.

Mentre il vero socialismo diventava così un'arma nelle mani dei governi contro la borghesia tedesca, esso rappresentava d'altra parte anche direttamente un interesse reazionario, l'interesse del popolo minuto tedesco. In Germania la piccola borghesia, che è un'eredità del secolo XVI, e sempre vi riaffiora, da quell'epoca in poi, in varie forme, costituisce il vero e proprio fondamento sociale della situazione attuale.

La sua conservazione è la conservazione della situazione tedesca attuale. Essa teme la sicura rovina dal dominio industriale e politico della borghesia, tanto in conseguenza della concentrazione del capitale, quanto attraverso il sorgere di un proletariato rivoluzionario. Le sembrò che il vero socialismo prendesse entrambi i piccioni con una fava. Ed esso si diffuse come un'epidemia.

La veste ordita di ragnatela speculativa, ricamata di fiori retorici di begli spiriti, impregnata di rugiada sentimentale febbricitante di amore, questa veste di esaltazione nella quale i socialisti tedeschi avviluppavano il loro paio di ossute verità eterne, non fece che aumentare lo spaccio della loro merce presso quel pubblico.

Per conto suo, il socialismo tedesco riconobbe sempre meglio la propria vocazione d'essere il burbanzoso rappresentante di questa piccola borghesia.

Esso ha proclamato la nazione tedesca la nazione normale; il filisteo tedesco l'uomo normale. Ha conferito ad ogni abiezione di costui un senso celato, superiore, socialistico pel qual l'abiezione significava il contrario di quel che era. Ed ha tratto le ultime conseguenze prendendo direttamente posizione contro la tendenza brutalmente distruttiva del comunismo e proclamando la propria imparziale superiorità a tutte le lotte di classe. Quanto circola in Germania di pretesi scritti socialisti e comunisti appartiene, con pochissime eccezioni, alla sfera di questa sordida e snervante letteratura.

La Fiat e la voce degli operai polacchi

Tommaso Pirozzi: Fiat e la voce degli operai polacchiNote di Tommaso|Note su
Fiat e la voce degli operai polacchi
Oggi alle 11.24
Ecco il testo della lettera:

“La FIAT gioca molto sporco coi lavoratori. Quando trasferirono la produzione qui in Polonia ci dissero che se avessimo lavorato durissimo e superato tutti i limiti di produzione avremmo mantenuto il nostro posto di lavoro e ne avrebbero creati degli alti. E a Tychy lo abbiamo fatto. La fabbrica oggi è la più grande e produttiva d’Europa e non sono ammesse rimostranze all’amministrazione (fatta eccezione per quando i sindacati chiedono qualche bonus per i lavoratori più produttivi, o contrattano i turni del weekend)

A un certo punto verso la fine dell’anno scorso è iniziata a girare la voce che la FIAT aveva intenzione di spostare la produzione di nuovo in Italia. Da quel momento su Tychy è calato il terrore. Fiat Polonia pensa di poter fare di noi quello che vuole. L’anno scorso per esempio ha pagato solo il 40% dei bonus, benché noi avessimo superato ogni record di produzione.

Loro pensano che la gente non lotterà per la paura di perdere il lavoro. Ma noi siamo davvero arrabbiati. Il terzo “Giorno di Protesta” dei lavoratori di Tychy in programma per il 17 giugno non sarà educato come l’anno scorso.
Che cosa abbiamo ormai da perdere?

Adesso stanno chiedendo ai lavoratori italiani di accettare condizioni peggiori, come fanno ogni volta. A chi lavora per loro fanno capire che se non accettano di lavorare come schiavi qualcun altro è disposto a farlo al posto loro. Danno per scontate le schiene spezzate dei nostri colleghi italiani, proprio come facevano con le nostre.

In questi giorni noi abbiamo sperato che i sindacati in Italia lottassero. Non per mantenere noi il nostro lavoro a Tychy, ma per mostrare alla FIAT che ci sono lavoratori disposti a resistere alle loro condizioni. I nostri sindacati, i nostri lavoratori, sono stati deboli. Avevamo la sensazione di non essere in condizione di lottare, di essere troppo poveri. Abbiamo implorato per ogni posto di lavoro. Abbiamo lasciato soli i lavoratori italiani prendendoci i loro posti di lavoro, e adesso ci troviamo nella loro stessa situazione.

E’ chiaro però che tutto questo non può durare a lungo. Non possiamo continuare a contenderci tra di noi i posti di lavoro. Dobbiamo unirci e lottare per i nostri interessi internazionalmente.

Per noi non c’è altro da fare a Tychy che smettere di inginocchiarci e iniziare a combattere. Noi chiediamo ai nostri colleghi di resistere e sabotare l’azienda che ci ha dissanguati per anni e ora ci sputa addosso.

Lavoratori, è ora di cambiare”.

E’ opportuno ricordare che i lavoratori della Fiat di Pomigliano D’Arco sono stati chiamati a votare per accettare le condizioni che la FIAT gli ha posto per riportare in Italia la produzione della Panda prodotta in Polonia, a Tychy. Le condizioni imposte da Marchionne sono: sabato lavorativo, tre turni al giorno invece di due, pausa pranzo ridotta a mezz’ora, 120 ore di straordinari obbligatori e periodi di malattia non retribuiti. La lettera degli operai di Tychy è emblematica e persino tragica. Che cosa non si è disposti a fare pur di rimanere al lavoro? E segnala almeno un punto critico: perchè il sindacato italiano non ha nemmeno provato ad incontrare quei lavoratori impedendo così alla Fiat di cavalcare la guerra fra poveri per il posto di lavoro?

sabato 24 luglio 2010

la truffa newco

La truffa Newco

Sembrerebbe che la Fiat abbia allo studio il progetto di inventarsi una newco a Pomigliano per riassumere, alle sue condizioni, il personale che le farà comodo, punire con il licenziamento il quaranta per cento che ha osato sfidare il Divino A.d. Marchionne, creare una realtà ab novo simile a quella Alitalia. Il caso Alitalia viene studiato attentamente ed assunto a modello per la nuova società.
Per quanto i giuristi della Fiat possano essere di altissimo livello e di grande abilità non potranno tuttavia ignorare che c'è una differenza insuperabile tra la situazione Fiat Stabilimento G.B.Vico e
l'Alitalia. La cordata di imprenditori che ha dato vita alla Kai era costituito di persone fisiche e giuridiche diverse da quelle che costituivano l'Alitalia. Nel caso della Newco di Pomigliano sarebbe la Fiat che succederebbe a se stessa, Marchionne a Marchionne, la famiglia Agnelli alla famiglia Agnelli.
Quindi si tratterebbe di una operazione che simulerebbe un cambiamento di ragione sociale che in effetti non c'è. Una truffa!
C'è una volontà del padronato italiano di sciogliersi dai vincoli della legalità, di profittare del proprio potere per rovesciare il tavolo e riportare a condizioni premoderne le regole del lavoro. La Fiat sembra pronta a non iscriversi alla Confindustria per non avere obbligazioni contrattuali. Vorrebbe fuoriuscire dal sistema contrattuale che sente troppo stretto ed inadatto alla realizzazione delle sue voglie di dominio e di profitto.
Per quanto la posizione della Marcegaglia sia apparsa di freno a quella di Marchionne non credo che ci sia un reale dissenso nel campo padronale. Emerge con sempre maggiore chiarezza la voglia di ribaltare ogni accordo e di organizzare un regime in cui alla bilateralità degli accordi subentrerà subito
la unilateralità della volontà padronale già apparsa a Pomigliano. "Queste sono le condizioni! Prendere o lasciare". Naturalmente si sa che il "lasciare" è del tutto retorico dal momento che i lavoratori non hanno alternativa. Hanno bisogno di lavorare per vivere e potrebbero, in caso di necessità, acconciarsi anche alle condizioni più umilianti e più dure.
Pietro Ancona
già consigliere CNEL

giovedì 22 luglio 2010

I licenziati in Borsa e l'osceno sindacalismo italiano

La Fiat in Borsa e l'osceno sindacato italiano

La Fiat ha avuto uno strepitoso successo in borsa. Il titolo è aumentato del 6,41 per cento dopo la
comunicazione del buon andamento del trimestre e della scissione in due della Impresa. La Fiat auto prosegue la sua marcia nella globalizzazione verso una produzione di sei milioni di auto ritenuta la sola vincente nella competizione attuale.
Questo brillante successo borsistico è stato preparato meticolosamente con alcune operazioni
aggressive rivolte a neutralizzare l'insuccesso di Marchionne nel referendum di Pomigliano. Gli azionisti danno le pagelle sul conflitto sociale, sui diritti, sulla forza del sindacato.La Fiat doveva rassicurarli di avere un mano un nodoso bastone e di tenere l'ordine. Cinque lavoratori sono stati licenziati. Scelti tra gli aderenti o esponenti della Fiom e dello SliCobas che sono
i sindacati che continuano a restare tali e cioè a svolgere le funzioni di tutela dei lavoratori che Cisl UIL ed altri sindacati gialli hanno dismesso da un pezzo. Marchionne in persona è intervenuto su "Repubblica di oggi"sul licenziamento di uno degli operai. Ha testualmente detto: "perchè si deve
tollerare che uno dice di portare il figlio dal medico e poi va a scioperare?"Qualcuno dovrebbe fargli osservare che non c'è proporzione tra il "delitto" commesso e la pena inflitta. In secondo luogo il licenziato potrebbe benissimo aver portato il figlio dal medico ed utilizzato il resto del tempo per partecipare alla manifestazione con i suoi compagni di lavoro. In terzo luogo, partecipare ad una manifestazione per difendere i diritti e la dignità messi in pericolo dalla introduzione di sistemi WMC ha una valenza morale che non può essere disconosciuta. I licenziamenti sono stati una fredda e per certi versi maramaldesca risposta all'insuccesso della pretesa mafiosa di condivisione di una riorganizzazione della produzione basata sullo sfruttamento intensivo del lavoro con accordi illegali ed anticostituzionali che sono già stati denunziati alla magistratura ed all'Inail con un esposto che evidenzia le gravi patologie scheletrico-muscolari-nervose alle quali andranno incontro i lavoratori.
Marchionne ci fa sapere che produrrà in Serbia la manovolume che "con sindacati più seri" si faceva a Mirafiori. La "serietà " alla quale allude Marchionne è quella fin qui dimostratagli da Cisl ed Uil ma che evidentemente non gli basta per stare tranquillo. La Fiom e la stessa CGIL non sarebbero "seri" e pertanto vengono additati come responsabili del trasferimento all'estero dell'impianto. Insomma chi difende i diritti è responsabile della fuga all'estero delle aziende. Anche il meschino e tartufista quadro politico italiano interviene per lamentarsi dell' estremismo della FIOM e dei Cobas che metterebbero a repentaglio l'occupazione. Ma la Fiat si trasferisce all'estero perchè la povera Serbia, assetata dal bisogno di creare occupazione, pagherà quasi per intero lo stabilmento. Cosa che a suo tempo è successa a Termini Imerese. I paesi poveri e bisognosi di lavoro sono disposti a pagare coloro i quali si degnano di impiantarvelo. La Fiat quindi avrà contributi dallo Stato serbo e potrà avere a disposizione una manodopera da pagare meno della metà di quella italiana. Questo problema delle disuguaglianze salariali dentro l'Unione Europea sta diventando allarmante: c'è una formidabile spinta al livellamento verso il basso e di sottrazione di diritti da una imprenditoria cinica, irresponsabile, alla ricerca di profitti "mordi e fuggi" e di zone nelle quali si possono permettere di inquinare senza grossi problemi. Ne sappiamo qualcosa per quanto è accaduto in Sicilia negli anni sessanta nei poli siracusano e gelese della petrolchimica. Se la globalizzazione abbisogna di regole lo stesso dicasi
dell'area della Unione Europea dentro la quale i paesi dell'Est sono diventati una vasta area per la delocalizzazione di impianti provenienti da democrazie economiche e sociali più mature ed avanzate.
Sindacati e sinistra non fanno nulla per fronteggiare questa terribile deriva verso l'inabissamento dei diritti e del welfare in Europa. Non esiste una linea di fronteggiamento dei salari e dei diritti dall'attacco padronale. Bisognerebbe chiedere il Salario Minimo Garantito in tutta la Unione Europea ed avviare
la contrattazione europea. Potrebbero iniziare i metalmeccanici con la presentazione di un progetto di
Contratto Collettivo Europeo di Lavoro che potrebbe ribaltare la tendenza alla decontrattualizzazione sostenuta dalla Confindustria ed appoggiata in Italia da Cisl ed Uil.
Ma le scelte che stanno compiendo sindacati italiani come la Cisl e l'UIL sono davvero oscene. Bonanni ha elogiato "l'accordo" di Pomigliano e ne fa un modello da estendere a tutte le imprese italiane. Insomma è d'accordo con la Marcegaglia, Sacconi e con Marchionne: bisogna dare una forte sterzata
e cambiare le regole ed i contenuti del lavoro riportandolo agli estremi parametri indicati per il massimo sfruttamento della prestazione umana. E' immorale, è osceno che coloro i quali sono preposti alla difesa dei diritti dei lavoratori si facciano portavoce della ideologia del padronato. Se padronato e sindacato parlano lo stesso linguaggio e condividono le stesse cose i lavoratori si ritroveranno nella solitudine di chi è costretto a chinare la testa o a cercare una via di salvezza diversa da quella che finora era assicurata da una normale dialettica del conflitto sociale.
Pietro Ancona
già consigliere del CNEL





http://www.affaritaliani.it/economia/fiat_cda_approva_scissione_industrial210710.html
http://www.inail.it/Portale/appmanager/portale/desktop?_nfpb=true&_pageLabel=PAGE_SALASTAMPA&nextPage=Per_i_Giornalisti/Rassegna_Stampa/Indice_Cronologico/2010/Maggio/04/INAIL_territoriale/info1639004097.jsp

mercoledì 21 luglio 2010

Il Manifesto dei Comunisti. Secondo Capitolo

[ Indice de Il Manifesto del Partito Comunista ]

Il Manifesto del Partito Comunista
II. Proletari e Comunisti


In che rapporto sono i comunisti con i proletari in genere?

I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai.

I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato.

I comunisti non pongono princìpi speciali sui quali vogliano modellare il movimento proletario.

I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell'intero proletariato, nelle varie lotte nazionali dei proletari; e dall'altra per il fatto che sostengono costantemente l'interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia.

Quindi in pratica i comunisti sono la parte progressiva più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, e quanto alla teoria essi hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato, di comprendere le condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento proletario.

Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri proletari: formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato.

Le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su princìpi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo.

Esse sono semplicemente espressioni generali di rapporti di fatto di una esistente lotta di classi, cioè di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. L'abolizione di rapporti di proprietà esistiti fino a un dato momento non è qualcosa di distintivo peculiare del comunismo.

Tutti i rapporti di proprietà sono stati soggetti a continui cambiamenti storici, a una continua alterazione storica.

Per esempio, la rivoluzione francese abolì la proprietà feudale in favore di quella borghese.

Quel che contraddistingue il comunismo non è l'abolizione della proprietà in generale, bensì l'abolizione della proprietà borghese.

Ma la proprietà privata borghese moderna è l'ultima e la più perfetta espressione della produzione e dell'appropriazione dei prodotti che poggia su antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri.

In questo senso i comunisti possono riassumere la loro teoria nella frase: abolizione della proprietà privata. Ci si è rinfacciato, a noi comunisti che vogliamo abolire la proprietà acquistata personalmente, frutto del lavoro diretto e personale; la proprietà che costituirebbe il fondamento di ogni libertà, attività e autonomia personale.

Proprietà frutto del proprio lavoro, acquistata, guadagnata con le proprie forze! Parlate della proprietà del minuto cittadino, del piccolo contadino che ha preceduto la proprietà borghese? Non c'è bisogno che l'aboliamo noi, l'ha abolita e la va abolendo di giorno in giorno lo sviluppo dell'industria.

O parlate della moderna proprietà privata borghese?

Ma il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea proprietà a questo proletario? Affatto. Il lavoro del proletario crea il capitale, cioè quella proprietà che sfrutta il lavoro salariato, che può moltiplicarsi solo a condizione di generare nuovo lavoro salariato, per sfruttarlo di nuovo. La proprietà nella sua forma attuale si muove entro l'antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di questo antagonismo. Essere capitalista significa occupare nella produzione non soltanto una pura posizione personale, ma una posizione sociale.

Il capitale è un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo mediante una attività comune di molti membri, anzi in ultima istanza solo mediante l'attività comune di tutti i membri della società.

Dunque, il capitale non è una potenza personale; è una potenza sociale.

Dunque, se il capitale viene trasformato in proprietà collettiva, appartenente a tutti i membri della società, non c'è trasformazione di proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. La proprietà perde il suo carattere di classe.

Veniamo al lavoro salariato.

Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario del lavoro, cioè è la somma dei mezzi di sussistenza che sono necessari per mantenere in vita l'operaio in quanto operaio. Dunque, quello che l'operaio salariato s'appropria mediante la sua attività è sufficiente soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo affatto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro per la riproduzione della esistenza immediata, appropriazione che non lascia alcun residuo di profitto netto tale da poter conferire potere sul lavoro altrui. Vogliamo eliminare soltanto il carattere miserabile di questa appropriazione, nella quale l'operaio vive solo allo scopo di accrescere il capitale, e vive solo quel tanto che esige l'interesse della classe dominante.

Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per moltiplicare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per ampliare, per arricchire, per far progredire il ritmo d'esistenza degli operai.

Dunque nella società borghese il passato domina sul presente, nella società comunista il presente domina sul passato. Nella società borghese il capitale è indipendente e personale, mentre l'individuo operante è dipendente e impersonale.

E la borghesia chiama abolizione della personalità e della libertà l'abolizione di questo rapporto! E a ragione: infatti, si tratta dell'abolizione della personalità, della indipendenza e della libertà del borghese.

Entro gli attuali rapporti di produzione borghesi per libertà s'intende il libero commercio, la libera compravendita.

Ma scomparso il traffico, scompare anche il libero traffico. Le frasi sul libero traffico, come tutte le altre bravate sulla libertà della nostra borghesia, hanno senso, in genere, soltanto rispetto al traffico vincolato, rispetto al cittadino asservito del medioevo; ma non hanno senso rispetto alla abolizione comunista del traffico, dei rapporti borghesi di produzione e della stessa borghesia.

Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri; la proprietà privata esiste proprio per il fatto che per nove decimi non esiste. Dunque voi ci rimproverate di voler abolire una proprietà che presuppone come condizione necessaria la privazione della proprietà dell'enorme maggioranza della società.

In una parola, voi ci rimproverate di volere abolire la vostra proprietà.

Certo, questo vogliamo.

Appena il lavoro non può più essere trasformato in capitale, in denaro, in rendita fondiaria, insomma in una potenza sociale monopolizzabile, cioè, appena la proprietà personale non può più convertirsi in proprietà borghese, voi dichiarate che è abolita la persona.

Dunque confessate che per persona non intendete nient'altro che il borghese, il proprietario borghese. Certo questa persona deve essere abolita.

Il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi prodotti della società, toglie soltanto il potere di assoggettarsi il lavoro altrui mediante tale appropriazione.

Si è obiettato che con l'abolizione della proprietà privata cesserebbe ogni attività e prenderebbe piede una pigrizia generale.

Da questo punto di vista, già da molto tempo la società borghese dovrebbe essere andata in rovina per pigrizia, poiché in essa coloro che lavorano, non guadagnano, e quelli che guadagnano, non lavorano. Tutto lo scrupolo sbocca nella tautologia che appena non c'è più capitale non c'è più lavoro salariato.

Tutte le obiezioni che vengono mosse al sistema comunista di appropriazione e di produzione dei prodotti materiali, sono state anche estese alla appropriazione e alla produzione dei prodotti intellettuali, come il cessare della proprietà di classe è per il borghese il cessare della produzione stessa, così il cessare della cultura di classe è per lui identico alla fine della cultura in genere.

Quella cultura la cui perdita egli rimpiange, è per la enorme maggioranza la preparazione a diventar macchine.

Ma non discutete con noi misurando l'abolizione della proprietà borghese sul modello delle vostre idee borghesi di libertà, cultura, diritto e così via. Le vostre idee stesse sono prodotti dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, come il vostro diritto è soltanto la volontà della vostra classe elevata a legge, volontà il cui contenuto è dato nelle condizioni materiali di esistenza della vostra classe.

Voi condividete con tutte le classi dominanti tramontate quell'idea interessata mediante la quale trasformate in eterne leggi della natura e della ragione, da rapporti storici quali sono, transeunti nel corso della produzione, i vostri rapporti di produzione e di proprietà. Non vi è più permesso di comprendere per la proprietà borghese quel che comprendete per la proprietà antica e per la proprietà feudale.

Abolizione della famiglia! Anche i più estremisti si riscaldano parlando di questa ignominiosa intenzione dei comunisti.

Su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia: ma essa ha il suo complemento nella coatta mancanza di famiglia del proletario e nella prostituzione pubblica.

La famiglia del borghese cade naturalmente col cadere di questo suo complemento ed entrambi scompaiono con la scomparsa del capitale.

Ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei genitori? Confessiamo questo delitto. Ma voi dite che sostituendo l'educazione sociale a quella familiare noi aboliamo i rapporti più cari.

E anche la vostra educazione, non è determinata dalla società? Non è determinata dai rapporti sociali entro i quali voi educate, dalla interferenza più o meno diretta o indiretta della società mediante la scuola e così via? I comunisti non inventano l'influenza della società sull'educazione, si limitano a cambiare il carattere di tale influenza, e strappano l'educazione all'influenza della classe dominante.

La fraseologia borghese sulla famiglia e sull'educazione, sull'affettuoso rapporto fra genitori e figli diventa tanto più nauseante, quanto più, per effetto della grande industria, si lacerano per il proletario tutti i vincoli familiari, e i figli sono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro.

Tutta la borghesia ci grida contro in coro: ma voi comunisti volete introdurre la comunanza delle donne.

Il borghese vede nella moglie un semplice strumento di produzione. Sente dire che gli strumenti di produzione devono essere sfruttati in comune e non può naturalmente farsi venire in mente se non che la sorte della comunanza colpirà anche le donne.

Non sospetta neppure che si tratta proprio di abolire la posizione delle donne come semplici strumenti di produzione.

Del resto non c'è nulla di più ridicolo del moralissimo orrore che i nostri borghesi provano per la pretesa comunanza ufficiale delle donne fra i comunisti. I comunisti non hanno bisogno d'introdurre la comunanza delle donne; essa è esistita quasi sempre.

I nostri borghesi, non paghi d'avere a disposizione le mogli e le figlie dei proletari, per non parlare neppure della prostituzione ufficiale, trovano uno dei loro divertimenti principali nel sedursi reciprocamente le loro mogli.

In realtà il matrimonio borghese è la comunanza delle mogli. Tutt'al, più ai comunisti si potrebbe rimproverare di voler introdurre una comunanza delle donne ufficiale e franca al posto di una comunanza delle donne ipocritamente dissimulata. del resto è ovvio che, con l'abolizione dei rapporti attuali di produzione, scompare anche quella comunanza delle donne che ne deriva, cioè la prostituzione ufficiale e non ufficiale.

Inoltre, si è rimproverato ai comunisti ch'essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità.

Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch'esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia.

Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l'uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d'esistenza.

Il dominio del proletariato li farà scomparire ancor di più. Una delle prime condizioni della sua emancipazione è l'azione unita, per lo meno dei paesi civili.

Lo sfruttamento di una nazione da parte di un'altra viene abolito nella stessa misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro.

Con l'antagonismo delle classi all'interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca ostilità fra le nazioni.

Non meritano d'essere discusse in particolare le accuse che si fanno al comunismo da punti di vista religiosi, filosofici e ideologici in genere.

C'è bisogno di una profonda comprensione per capire che anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma, anche la coscienza degli uomini, cambia col cambiare delle loro condizioni di vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza sociale?

Cos'altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma assieme a quella materiale? Le idee dominanti di un'epoca sono sempre state soltanto le idee della classe dominante.

Si parla di idee che rivoluzionano un'intera società; con queste parole si esprime semplicemente il fatto che entro la vecchia società si sono formati gli elementi di una nuova, e che la dissoluzione delle vecchie idee procede di pari passo con la dissoluzione dei vecchi rapporti d'esistenza.

Quando il mondo antico fu al tramonto, le antiche religioni furono vinte dalla religione cristiana. Quando nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alle idee dell'illuminismo, la società feudale dovette combattere la sua ultima lotta con la borghesia allora rivoluzionaria. Le idee della libertà di coscienza e della libertà di religione furono soltanto l'espressione del dominio della libera concorrenza nel campo della coscienza.

Ma, si dirà, certo che nel corso dello svolgimento storico le idee religiose, morali, filosofiche, politiche, giuridiche si sono modificate. Però in questi cambiamenti la religione, la morale, al filosofia, la politica, il diritto si sono sempre conservati.

Inoltre vi sono verità eterne, come la libertà, la giustizia e così via, che sono comuni a tutti gli stati della società. Ma il comunismo abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale, invece di trasformarle; quindi il comunismo si mette in contraddizione con tutti gli svolgimenti storici avuti sinora.

A cosa si riduce quest'accusa? La storia di tutta quanta la società che c'è stata fino ad oggi s'è mossa in contrasti di classe che hanno avuto un aspetto differente a seconda delle differenti epoche.

Lo sfruttamento d'una parte della società per opera dell'altra parte è dato di fatto comune a tutti i secoli passati, qualunque sia la forma ch'esso abbia assunto. Quindi, non c'è da meravigliarsi che la coscienza sociale di tutti i secoli si muova, nonostante ogni molteplicità e differenza, in certe forme comuni: forme di coscienza, che si dissolvono completamente soltanto con la completa scomparsa dell'antagonismo delle classi.

La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti tradizionali di proprietà; nessuna meraviglia che nel corso del suo sviluppo si rompa con le idee tradizionali nella maniera più radicale.

Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo.

Abbiamo già visto sopra che il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato s'eleva a classe dominante, cioè nella conquista della democrazia.

Il proletariato adoprerà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive.

Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo mediante interventi despotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, cioè per mezzo di misure che appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell'economia; ma che nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell'intero sistema di produzione.

Queste misure saranno naturalmente differenti a seconda dei differenti paesi.

Tuttavia, nei paesi più progrediti potranno essere applicati quasi generalmente i provvedimenti seguenti:

1.- Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato.

2.- Imposta fortemente progressiva.

3.- Abolizione del diritto di successione.

4.- Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.

5.- Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo.

6.- Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato.

7.- Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo.

8.- Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l'agricoltura.

9.- Unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e della industria, misure atte ad eliminare gradualmente l'antagonismo fra città e campagna.

10.- Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell'istruzione con la produzione materiale e così via.

Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell'evoluzione, e tutta la produzione sarà concentrata in mano agli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico. In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzato per opprimerne un'altra. Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell'antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d'esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe.

Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.

martedì 20 luglio 2010

L'ITALIA COME LA COREA?

Pomigliano: inseguendo la Corea
La Panda è la Fiat che dà meno margini di guadagno. Scegliere di costruire
qui un modello del genere, che le altre case producono nei paesi emergenti,
significava di per sé dover ottenere condizioni del lavoro simili a quelle.
Che poi, magari, saranno replicate in altri stabilimenti

Alfredo Recanatesi
C’è da trasecolare ascoltando le dichiarazioni del governo – Sacconi e
Tremonti in particolare – che additano l’accordo da raggiungere su
Pomigliano come “il” modello delle nuove relazioni industriali. C’è da
chiedersi se sanno quel che dicono e se si rendono conto che quelle loro
dichiarazioni schiudono un futuro disperante per il nostro già malconcio
paese.

Nel caso specifico, la questione di Pomigliano nasce quando il governo
obiettò alla Fiat la circostanza che, tra i grandi paesi dell’Europa
occidentale, l’Italia si distingueva per essere quello nel quale si
producevano meno automobili. La Fiat concesse di elevare la produzione sul
territorio nazionale da 600.000 a 900.000 unità. Soddisfazione generale,
perché pochi annusarono il trabocchetto che Marchionne andava tessendo.
Quando si delinearono gli aspetti operativi di quel piano, infatti, venne
fuori che la quota addizionale della produzione di autoveicoli sarebbe stata
costituita dalla Panda, il cui nuovo modello, anziché in Polonia come il
modello attualmente ancora in produzione, sarebbe stato prodotto, appunto,
in Italia.

La Panda? E perché proprio la Panda?

La Panda, come tutti sanno, è il modello entry-level dell’intero gruppo
Fiat. Seppure progettata con una perizia non facilmente eguagliabile, è la
più spartana ed economica della gamma, e come tale si confronta con le
entry-level delle altre case generaliste. Date queste connotazioni, si può
capire perché in questa fascia di mercato la fanno da padrone le case
coreane – filiazioni di case giapponesi ed americane – seguite da quelle
europee. Ma le auto che troviamo come ingresso nei listini delle case
europee occidentali non sono fabbricate in Francia o in Germania, ma nei
paesi dell’est europeo, come per altro la Fiat ha fatto finora con l’attuale
modello della Panda e con la più ricercata 500, o in paesi più lontani. La
Volkswagen, per dire della maggiore casa europea, ha in listino un modello
della classe Panda, la Fox, ma non esce certo dagli stabilimenti tedeschi,
essendo fabbricata nientemeno che in Brasile e in Argentina. Il motivo è
semplice: si tratta di auto economiche, che si confrontano nella fascia in
cui la concorrenza è più accesa, con una domanda estremamente elastica al
prezzo; auto, in definitiva, con il più basso contenuto di valore aggiunto e
con margini, se e quando ci sono, ridotti all’osso. Auto dunque che può
essere conveniente produrre solo alla condizione che vengano fabbricate in
paesi dove i salari sono bassi, la manodopera poco o nulla sindacalizzata,
le tutele scarse o inesistenti del tutto.

Lo stesso fatto di immaginare di fabbricare la Panda in Italia, quindi,
presuppone condizioni che equiparino costi ed organizzazione del lavoro a
quelli che possono essere ottenuti in Corea o, al massimo, nell’Europa dell’est.
Il protocollo Fiat che detta le condizioni per investire su Pomigliano per
farvi 280.000 nuove Panda l’anno non è altro che lo sviluppo per tabulas di
questa equiparazione. Ben altro discorso sarebbe se, anziché con la Panda,
si volesse ampliare la produzione domestica con auto di classe più elevata,
con un maggiore valore aggiunto, margini più ampi, e, dunque, possibilità di
sostenere più onerose condizioni economiche e normative per le maestranze.

Dice: meglio polacchi, rumeni, coreani e magari anche cinesi che
disoccupati. Certo, messa in questi termini non c’è scelta. Se queste
condizioni non si realizzano, la Panda non si può fare in Italia, Pomigliano
chiuderà e 15.000 persone, tra occupazione diretta e indotto, perderanno il
lavoro in una zona dove di lavoro dignitoso e, soprattutto, legale non ce n’è.
La tesi dei tanti benpensanti, compresi i benpensanti sindacalisti,
sembrerebbe di una linearità ineccepibile, e schiavo di stantìe ideologie
sembrerebbe chi la pensa diversamente e, pensandola diversamente, spinge
15.000 famiglie sul lastrico.

Eppure qualcosa da eccepire c’è. Intanto sulla strategia della Fiat che,
certo, è una azienda privata che ha tutto il diritto di compiere le scelte
che ritiene per lei più convenienti. Ed è ovvio che la sua convenienza sta
nel puntare su un’auto in concorrenza con prodotti fabbricati in paesi
emergenti al fine primario di chiedere l’applicazione in Italia di
condizioni da paese emergente col fine secondario di poterle replicare, se l’operazione
riesce come riuscirà, sugli altri stabilimenti italiani e fare scuola per
chissà quante altre manifatture nazionali.

Ma soprattutto c’è da eccepire su chi, facendo leva su quei 15.000
sventurati che devono scegliere se mangiare la minestra o saltare
(letteralmente) dalla finestra, esulta per la “svolta storica” e per il
“nuovo modello di relazioni” che così verrebbe stabilito. Davvero? La
responsabilità, la modernità, il realismo, la lungimiranza consisterebbero
nell’assunzione di paradigmi coreani, cinesi, o, bene che vada, polacchi per
le condizioni di lavoro e di vita? È questo che intendono i nostri politici,
i nostri governanti, i sindacalisti “responsabili”? Almeno risparmiateci
queste paternali elargite col ditino alzato per dimostrare che in questo
modo l’industria nazionale prospera e tutti ci possono guadagnare.

La storia è ormai lunga e dimostra ad abundantiam esattamente il contrario,
ossia che il recupero di produttività realizzato a spese del fattore lavoro
non solo non funziona, ma conduce un paese che ambiva confrontarsi con i
modelli dell’Europa occidentale a confrontarsi con i paesi emergenti dell’est-Europa,
dell’Asia, del sud-America. È una storia cominciata da almeno quindici anni,
ossia da quando al sistema produttivo nazionale è venuta meno la elargizione
di competitività che periodicamente veniva realizzata attraverso la
svalutazione della moneta. Mediamente – e ripetiamo: mediamente – il sistema
produttivo o, più specificamente, il sistema manifatturiero, non ha
riformulato la sua strategia impostata sul prezzo per puntare sulla
innovazione e sulla qualità, con la conseguenza che si è trovata a competere
con paesi sempre più attardati sulla via dello sviluppo economico e civile.
Le imprese, di conseguenza, hanno incontrato crescenti difficoltà nel
difendere le posizioni di mercato precedentemente raggiunte, la loro
sopravvivenza è stata sottoposta a crescenti rischi, e per allontanare
questi rischi hanno chiesto ed ottenuto di recuperare la competitività
perduta a spese del fattore lavoro: dall’accordo del ’93 che aprì l’epoca
della moderazione salariale al Pacchetto Treu, e poi il profluvio di
contratti atipici, e poi la legge 30, e poi la contrattazione decentrata e
via dicendo fino al protocollo del Lingotto su Pomigliano.

In breve, il problema di un sistema produttivo che – per la sua stessa
struttura basata sulla piccola dimensione, per carenza di capitali propri,
per una scarsa propensione al rischio, per la incapacità di investire nell’innovazione
di prodotto – ha accusato pesantemente i colpi della competizione globale è
stato sempre risolto, o almeno alleviato, erodendo le condizioni di vita e
di lavoro che maestranze e dipendenti avevano conquistato nel corso del
‘900.

Con quali risultati? Nessuno di quelli che di volta in volta erano stati
promessi da governi, Confindustria, imprese: la ricomposizione del sistema
produttivo è stata disincentivata, il nostro modello di specializzazione è
rimasto fondamentalmente quello basato sulla competitività di prezzo, il
prodotto ha rallentato la crescita fino a regredire; la distribuzione del
valore aggiunto prodotto si è costantemente spostata a favore del capitale e
delle rendite; il potere d’acquisto delle retribuzioni contrattuali è fermo
da quindici anni e per molti è regredito; l’area del precariato sottopagato
e con tutele scarse o nulle si è progressivamente estesa. Questi sono i
risultati di politiche presentate di volta in volta come “moderne” e
“responsabili”. Ora la Panda è l’emblema di un paese che, dopo aver sognato
di potersi confrontare con Francia, Germania o Inghilterra, si ritrova a
competere con polacchi, rumeni, coreani o cinesi. Ogni vertenza si chiude
scendendo un gradino di una scala che terminerà solo quando le condizioni di
vita e di lavoro saranno equivalenti a quelle dei paesi emergenti: ogni
volta si guarda a quel singolo gradino che si finisce per scendere, è ovvio,
perché un gradino in meno è sempre meglio della disoccupazione. Anche questa
volta il gradino di Pomigliano verrà sceso, ma almeno non si pretenda che si
faccia festa, ma si abbia consapevolezza di una necessità che perpetua il
declino dell’ultimo quindicennio.

L’evidenza della sintomatologia rende facile la diagnosi di questo ormai
lungo ed accentuato declino. Delle terapie si può dire solo che postulano
cure lunghe e probabilmente penose perché l’obiettivo non può che essere un
diverso modello di specializzazione (quello che occorreva adottare e
promuovere almeno quindici anni fa) e comporta processi economici e sociali
che possono essere sostenuti solo a fronte di un programma in grado di
riscuotere un consenso diffuso e convinto (questa, illustre ministro dell’Economia,
sarebbe una economia sociale di mercato, non il protocollo coreano di
Pomigliano). È una prospettiva certamente severa e dall’esito tutt’altro che
scontato, ma è ancor più severa, perché senza speranza, la prospettiva di
una equiparazione alla Corea o alla Romania. Mutuando le parole di
Lichtemberg, è il caso di concludere dicendo “in verità non si può dire se
la situazione sarà migliore quando cambierà; ma si può dire che deve
cambiare se si vuole che sia migliore”.
(16/06/2010)

pubblicato su Eguaglianza e Libertà